Il confine fragile della libertà, intervista a Jáchym Fleig

Novembre 22, 2025 - 02:30
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Il confine fragile della libertà, intervista a Jáchym Fleig

Nato nel 1970 a Villingen-Schwenningen da anni residente a Berlino, Jáchym Fleig ha costruito un percorso solido tra le Accademie di Belle Arti di Stoccarda e Dresda, con esperienze di studio alla Slade School of Fine Art e al Royal College of Art di Londra. Pur prediligendo il silenzio alla retorica, Fleig ha ottenuto numerosi riconoscimenti, tra cui una residenza artistica presso Sculpture Space, New York (2019), e diverse borse di studio, tra cui il Wilhelm  – Lehmbruck Stipendium (2007 – 2009) e il Künstlerhaus Schloss Balmoral (2009). Numerosi anche i premi: da quello della Fondazione LebensArt di Colonia (2013), ai più recenti PLASTIK 4×4 nel 2023 il premio TRANSITION di Böblingen nel 2024. Le sue opere fanno parte di prestigiose collezioni internazionali, tra cui il Dortmunder U in Germania, la Huma Kabakcı Collection in Turchia e il Museo de Arte Carrillo Gil in Messico.

La sua ricerca scultorea si espande oltre il concetto tradizionale di scultura, fondendosi con l’architettura e lo spazio circostante. Cemento, gesso, legno e poliuretano diventano elementi di un linguaggio visivo che suggerisce non solo l’idea di crescita, ma anche di deterioramento e stratificazione. Le sue installazioni sembrano prendere vita, insinuandosi tra pilastri, pareti e pavimenti, evocando paesaggi geologici, strutture in decomposizione o forme biologiche in continua espansione. In questa intervista, cercheremo di far emergere il pensiero dietro la materia, le intenzioni dietro le forme, esplorando il processo creativo di un artista che affida alla scultura il compito di comunicare ciò che le parole non possono esprimere.

Courtesy of the artist

Come sei diventato un artista?
Sono stato inizialmente un restauratore e un modellista. Ho presto scoperto i limiti progettuali e contenutistici di questa professione. La ricerca di tecniche di produzione proprie, l’esperienza del processo e il risultato come prodotto di un’azione produttiva mi hanno condotto verso le belle arti.

Che artista sei diventato o hai scelto di essere?
Creo tutte le mie opere da solo e concepisco i processi di produzione necessari per realizzarle. Nel percorso di ricerca sulle azioni basate sul processo, la tridimensionalità si è rivelata un campo d’azione più aperto e variegato. Mi interessa portare i risultati della mia ricerca plastica nell’ambiente che mi circonda ed esaminare il campo di tensione che si sviluppa tra ciò che è trovato e ciò che è aggiunto. Se questa occupazione viene chiamata “arte” e la persona che la svolge “artista”, allora mi sta bene.

Il surrealismo è qualcosa che appartiene al tuo codice visivo, sbaglio?
Inevitabile parlarne. L’aspetto del surrealismo è ben leggibile nelle mie opere. Penso che il gioco con il caso controllato, il vagare tra forme naturali e forme artistiche sia affascinante. Per esempio, trovo Max Ernst un grande artista. Lui per me è stato ed è tutt’ora un riferimento. Il suo approccio sperimentale e il suo uso del caso nella creazione delle opere sono elementi che ritrovo nel mio processo creativo.

Courtesy of the artist

Cosa vuoi esprimere attraverso le tue opere?
Mi interessa la domanda su cosa sia realmente la libertà. La libertà non può essere semplicemente la scelta tra dieci opzioni di consumo o tra cinque carriere possibili. La libertà è fare ciò che voglio senza alcun beneficio immediatamente riconoscibile. Inserisco i risultati di queste azioni nel mio ambiente funzionale, equiparandoli alle due realtà.

Sembri prediligere formati grandi, persino monumentali. Perché?
Le mie opere sono spesso molto grandi, ma al contempo anche effimere. Questa limitazione temporale, pianificata fin dall’inizio, permette una libertà diversa nella scelta delle dimensioni. L’indagine sui miei costrutti disfunzionali in un ambiente orientato alla funzionalità mi ha portato automaticamente all’architettura come involucro circostante, funzionale, protettivo e di servizio.

I tuoi lavori sembrano organici e si vede che pur evolvendosi scaturiscono da un unico pensiero. Sbaglio?
Ogni opera è un passaggio, un punto di transizione verso nuove esplorazioni, sempre più radicate nell’equilibrio instabile tra forma, materia e spazio. Un nuovo progetto per me nasce sempre in continuità con il precedente. La cosa migliore è scivolare da un’opera all’altra, lasciando che il percorso artistico stesso suggerisca nuove possibilità. Ogni lavoro contiene in sé il seme di quello successivo, e il mio processo creativo è un’indagine continua sulle relazioni tra scultura e spazio.

Courtesy of the artist

Ci racconti come è evoluta la tua ricerca attraverso i tuoi lavori che consideri più importanti?
Nel corso degli anni, alcune opere hanno segnato svolte decisive nel mio lavoro. Addition to our systems (2003) è stata una delle prime esplorazioni del rapporto tra la scultura e il suo ambiente: l’opera non solo occupa lo spazio, ma imita la struttura che la ospita, in un dialogo sottile tra adattamento e invasione. Con Verbund (2009), questa relazione si è fatta più radicale: qui la scultura non si limita a inserirsi nell’architettura, ma nega la sua funzione, creando un contrasto tra il corpo solido dell’opera e l’utilità del luogo che la accoglie. Un ulteriore passo avanti è avvenuto con Zapfen (2021), dove la scultura non solo occupa lo spazio, ma lo domina, prendendo possesso dell’architettura stessa. Questo processo di crescita organica e di interazione con l’ambiente continua nelle opere più recenti come Faser (2024) e Shaft (2025), in cui la scultura nasce dalla deformazione spontanea di casseforme in gomma. La deformazione, inizialmente temporanea e casuale, viene poi fissata nel tempo attraverso la fusione in cemento pigmentato, cristallizzando un gesto effimero in una presenza permanente.

Come selezioni i materiali per le tue opere?
Utilizzo materiali da costruzione quotidiani, come quelli impiegati in architettura, nella produzione di mobili o nelle fabbriche. Nel loro uso “sbagliato” e nell’applicazione non convenzionale, trovo il margine d’azione artistico e plastico che dà vita alle mie opere.

Colori mai la materia che impieghi nei tuoi lavori?
Tutto deve avere un senso: se il materiale utilizzato è colorato o se è necessario il colore per garantire la durabilità dell’opera, allora lo uso volentieri. Allo stesso modo, se il colore può esaltare il carattere dei liquidi solidificanti (come gesso, cemento, ecc.), allora lo impiego con intenzione.

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