La politica di Mamdani, e il vizio di premiare la confezione al posto del contenuto

Mancano dieci giorni alle elezioni a sindaco di New York, e io ho passato le ultime settimane a dire che figuriamoci, vincerà il repubblicano col baschetto da Che Guevara, mentre tutti mi dicevano guarda che vince Mamdani, e io li trattavo come è giusto trattare i miei conoscenti che erano sicuri che nel 2016 vincesse la Clinton e nel 2024 la Harris.
Poi tutti hanno iniziato a dire che il repubblicano col baschetto dovrebbe ritirarsi, perché la divisione non è (da un bel pezzo) più tra destra e sinistra, e quindi non sono Cuomo e Mamdani che si mangiano i voti tra di loro: è la gente normale che disperde il voto tra baschetto (si chiama Curtis Sliwa, se ci tenete ai nomi) e Cuomo, e finiscono per vincere quelli cui interessa la resa social del sindaco, eleggendo Mamdani.
Una giornalista della Nbc ha chiesto a Donald Trump se avrebbe chiamato Sliwa per dirgli di ritirarsi, e lui ha detto che certo, preferirebbe un Democratico a un comunista (cioè: che Cuomo gli fa schifo ma Mamdani gli fa ancora più schifo), ma ha visto i sondaggi e non pensa ci sia nessuna speranza che Mamdani non vinca, e così New York avrà un sindaco comunista, e d’altra parte se studiassimo la storia, ci spiega il Donald, sapremmo che in questi mille anni è già successo molte volte che un comunista amministrasse New York e non ha mai funzionato.
Voi penserete che a quel punto fosse dovere dei giornalisti fargli presente che per una buona parte degli ultimi mille anni non esisteva New York, e per una parte ancora maggiore non esisteva il comunismo, ma è perché non avete capito come funziona ormai un mondo in cui si può dire tutto, si può sostenere qualunque enormità, ci si può contraddire e si può contraddire la realtà. Una non vorrebbe dire «orwelliano», ma ce la costringono.
Molti anni fa Victoria Cabello, quando qualche ospite del suo programma la sparava troppo grossa, aveva una sigla che diceva: ma allora vale tutto. Ed era prima dell’intelligenza artificiale, prima di non sapere neanche se quel che stai guardando sia successo davvero o sia un dibattito, un comizio, un’intervista che è stata creata da un cervello elettronico che consuma più acqua d’una nazione media, e tutto per fornire a noialtri di questo secolo rincretinito video da scrollare mentre siamo seduti sul cesso.
Mancano dieci giorni, e io solo ieri mi sono arresa al fatto che niente importa. Sì, va bene, Cuomo ha postato un filmato creato dall’intelligenza artificiale di gente che dichiarava il proprio voto per Mamdani mentre commetteva reati assortiti, poi l’ha cancellato, ma non importa talmente niente che nessuno ha fatto l’inchiesta che vorrei leggere, quella che spiega come sia accaduto che in un filmato del genere il tizio con la kefiah al collo che ruba al supermercato avesse la faccia di Idris Elba: io non ho mai aperto un’interfaccia di intelligenza artificiale in vita mia, ma sono abbastanza certa che l’intelligenza artificiale non ti metta un tizio famoso nel filmato se non gli dici tu di mettercelo.
Sì, va bene, Mamdani si presenta al dibattito di mercoledì sera, quello tra i tre candidati, il secondo e ultimo prima che ieri iniziassero le operazioni di voto anticipato, assieme a una delle tizie che hanno fatto causa per molestie a Cuomo, e dice che lei non può parlare perché Cuomo le ha fatto causa per diffamazione, ma parlerò io per lei, e non importa niente quel che in tempi meno confusi sarebbe stato importantissimo: è la stessa cosa che fece Trump nel 2016, presentandosi al dibattito con Hillary accompagnato dalle donne che avevano accusato Bill Clinton di molestie. Zohran è il nuovo Donald?
(Poi ci sarebbe da discutere della questione delle cause per diffamazione, raccontate ovunque, dal caso Ranucci fino alle elezioni newyorkesi, come orrendi strumenti d’intimidazione equivalenti al farti saltare in aria, e io aspetto da anni che qualcuno mi spieghi cosa dovrebbe fare qualcuno che si ritiene diffamato se non servirsi degli strumenti legali per tutelarsi).
Niente importa, è tutta una versione dietetica della curva dello stadio, i tuoi tifosi ti daranno ragione comunque, gli altri ti daranno torto comunque, qualunque cosa tu dica o faccia, ma non serve neanche che intanto tu sudi in campo come allo stadio, basta tu abbia una certa consuetudine coi trucchetti che ti fanno prendere i cuoricini sui social.
James Carville, l’uomo che s’inventò Bill Clinton, dice che vorrebbe portare Mamdani ai suoi studenti universitari di comunicazione come esempio di come si fa, e il talento per la comunicazione è certamente importante, come hanno dimostrato Silvio Berlusconi ma soprattutto Barack Obama, e che un talento per la comunicazione che sopravanza quello politico non sia una buona notizia è una lezione che l’elettorato non ha minimamente imparato: per capire che è da scemi premiare la confezione e non il contenuto bisogna non essere scemi, è un comma 22, e all’elettore medio interessa sentirsi dire che New York sarà meno cara, e non gli interessa obiettare che non c’è modo di far essere meno caro un posto in cui tutti vogliono stare, è per quello che tutte le città appetibili ormai sono non a portata di stipendio qualunque.
Mi sono arresa al fatto che niente importa, che i fatti sono un relitto della guerra fredda, contano solo le suggestioni e la fotogenia e i meme, e Mamdani per i meme è perfetto: sul New York Times c’è un articolo firmato da ben quattro giornalisti (nel mitomane giornalismo italiano lo chiamerebbero «inchiesta») su tutti i modi in cui tutti gli sbagliano il nome, con tanto di video e giochino grafico sugli errori di pronuncia.
Se abbiamo imparato a pronunciare il nome della madre dei draghi del “Trono di spade”, dice una neurolinguista interpellata, possiamo imparare a pronunciare il suono innaturale per un anglofono della emme prima della d. A me verrebbe da dire «parla per te, io Daenerys Targaryen l’ho chiamata sempre e solo “cosa, lì, quella dei draghi”», ma so d’avere perso, so che chi controlla i meme controlla il mondo, so che sono un relitto del Novecento, so che Mamdani fa benissimo a pubblicare il filmato di una che, mentre lui è sulla bici a noleggio, gli urla «comunista» e lui risponde «si pronuncia ciclista»: se vinci la battaglia della battuta pronta, delle gif, dei meme, tuo è il regno, tua la potenza, tuo il programma elettorale coi negozi di alimentari gestiti dal comune.
A un certo punto del dibattito di mercoledì sera, Cuomo ha detto a Mamdani: non hai mai avuto un lavoro. È stato lì che mi sono arresa. Quando ho pensato che Cuomo ha ragione, Mamdani non ha mai fatto una proposta rilevante nei suoi quattr’anni al parlamento locale dello stato di New York, meno di dieci anni fa voleva fare il rapper, ha trentaquattro anni e lo mantengono i genitori (e tutto questo senza avere origini italiane). Come ha detto nello stesso dibattito Sliwa, non serve un foglio o più di uno: «Zohran, per il tuo curriculum basta un tovagliolino da cocktail».
Cuomo ha ragione, Sliwa ha ragione, ma non importa a nessuno. Non ci sarà un elettore che sia uno che, andando a votare, prenderà in considerazione la capacità di Mamdani di mantenere ciò che promette. Woody Allen ha detto che vota Cuomo perché Mamdani è un ragazzo simpatico, ma una città ha bisogno di uno che sappia fare il sindaco, e io ho pensato che è un relitto dei totalitarismi come me, di quel totalitarismo che era l’illusione delle competenze.
Tra dieci giorni ci saranno quelli che non votano Mamdani perché è comunista o perché è antisemita, e quelli che lo votano perché pensano che così un appartamento a Prince Street potrà costare quel che costava ottant’anni fa. Ci si differenzia sulle scelte, non sulla qualità dei criteri in base ai quali quelle scelte vengono fatte. Sono criteri di questo tempo in cui i quarantenni sono tredicenni: come potrebbero essere non adolescenziali?
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