L’assassinio di Charlie Kirk, i buzzurri coi fucili, e il ribaltamento dell’apocrifo di Voltaire

Cominciamo, tanto per cambiare, da quel che sbaglia la sinistra. In questo caso l’elettorato di sinistra americano, che un secondo dopo aver appreso la notizia dell’assassinio di Charlie Kirk, morto perché un proiettile l’ha colpito alla giugulare mentre parlava in pubblico, un secondo dopo mica poteva stare zitto, perché oggi non possiamo stare zitti mai, su niente, sennò la tariffa dati che la paghiamo a fare. Un secondo dopo, il club dei giusti aveva già pronto il video in cui Kirk diceva che le morti per arma da fuoco sono il prezzo che l’America paga alla libertà di avere armi da fuoco.
Libertà che lui considerava sacrosanta ma, miei deliziosi ignorantelli, ciò non lo rende né particolarmente di destra né particolarmente eccezionale, nel vostro stupidissimo paese convinto di dover domare la frontiera e che esista ancora il selvaggio west.
Una certa Kamala Harris, che era candidata come presidente degli Stati Uniti un anno fa, disse durante la campagna elettorale, a Oprah Winfrey, che certo che aveva delle armi in casa e certo che avrebbe sparato a un intruso.
Ci vorrebbero leggi più restrittive per evitare che l’America fosse l’unico paese al mondo in cui qualunque psicopatico si compra un mitra ed entra in una scuola sparando come fosse la schermata d’un videogioco? Certo che sì, ma quelle ipotesi di legge sono impopolari perché siamo fatti al cinquanta per cento di abitudini, e l’abitudine degli americani è a pensarsi gente cui nessuno deve impedire di armarsi. Persino se, come Kamala Harris, non vivono in mezzo a quelle remote province nelle quali o ti armi o arriva un coyote a sbranarti.
Per l’altro cinquanta per cento, siamo fatti di capacità di raccontarcela, e la sinistra è determinatissima a raccontarsi che eh, se avessimo leggi più severe sul possesso di armi non sarebbe successo. La sinistra tutta, si tratti di disperati nomignoli nel loro tinello o di romanzieri fantastiliardari, di Clam75 o di Stephen King. Tutti uniti nel dichiarare che se il porto d’armi fosse più difficile da ottenere, allora sì che – sì che cosa? Allora sì che Bob Kennedy e Martin Luther King sarebbero ancora vivi?
Come se gli attentati politici avvenissero solo nei paesi di cowboy. Come se esistessero leggi che azzerano il possesso di armi. Come se, nei paesi in cui il feticismo delle armi da fuoco è minore, non fosse mai esistita la violenza da arma da fuoco: chissà come mai in Italia quegli anni lì li abbiamo chiamati «di piombo», fammici pensare.
È il più ovvio dei comma 22 e anche degli «of course, but maybe»: certo che ci vorrebbero leggi che vietassero alla gente abbastanza squilibrata da spararti di possedere armi, ma forse nessuno che non sia abbastanza squilibrato da pensare di sparare vorrà mai possedere un’arma.
C’era una scena di “West Wing” in cui la più intelligente delle repubblicane diceva allo staff del presidente democratico «a voi non piace la gente cui piacciono le armi», e all’epoca annuivamo convinte della brillantezza della posizione di sinistra, non amare quei buzzurri coi fucili; ma quel che stava dicendo la bionda era: a voi non piacciono gli americani. Che va bene se sei una stronza europea che guarda a quella Disneyland con degnazione, un po’ meno se sei un americano che non si capacita che la sua parte politica perda le elezioni.
Dopodiché, ripostare il video in cui a invocare la libertà di possesso delle armi da fuoco è uno che da un’arma da fuoco è appena stato ammazzato fa schifo né più né meno che dire che una tizia è stata stuprata perché si era vestita provocante. Più si percepiscono diversi, più sono identici.
Dopodiché, il problema non è se faccia più schifo la destra o la sinistra: il problema è che facciamo schifo come società degli umani. Subito prima di Kirk, la morta pianta da un solo lato del dibattito pubblico era una ragazza ucraina, Iryna Zarutska, accoltellata in un vagone della metropolitana, in North Carolina, da un uomo che ha tutto il catalogo di caratteristiche che a sinistra fanno scattare il tic «eh, ma poverino»: afroamericano, senzatetto, malato di mente. Poverino. Dopodiché, la morta è quell’altra.
Evidentemente essere morti non basta, perché all’inizio della settimana, sulla Cnn, Brian Stelter ha detto dell’assassinio della Zarutska che «Elon Musk, Charlie Kirk, e altre figure allineate con Trump hanno con successo cercato di inquadrare quest’omicidio nel fenomeno della violenza crescente nelle grandi città». Invece che, chessò, nel fenomeno della cucina molecolare.
Non è stato l’unico a fare osservazioni analoghe, e non sarò certo io a dire che Stelter è responsabile di aver incitato all’omicidio di Kirk, perché sono abbastanza adulta da sapere che la responsabilità penale è personale, e abbastanza lucida da rendermi conto di quale enorme puttanata sia ritenere le parole una violenza al pari della violenza. Anni fa Chris Rock disse che chiunque parli di cyberbullismo non ha evidentemente mai avuto un compagno di scuola che gli rovesciava un secchio di piscio in testa, e mi pare ancora la cosa più lucida detta sull’ostinata confusione tra parole e azioni.
Però Stelter, che dà dei razzisti a quelli che osano non essere cordiali con un assassino che incidentalmente ha la pelle nera, mi ha fatto pensare a “Summer of our discontent”, il libro di Thomas Chatterton Williams sull’estate del 2020 (in Italia lo pubblicherà Mondadori, prima o poi).
TCW racconta la lunare esperienza della stagione in cui, su un tessuto sociale già provato dalla pandemia, s’innestò Black Lives Matter, e «gente bianca che aveva poco o nessun contatto interpersonale con i neri aveva collettivamente fatto voto di fedeltà a uno slogan che astrattamente asseriva che noialtri “importavamo”».
TCW cita Slavoj Žižek: «In questo come nella maggior parte degli altri casi, coloro che si appropriano del ruolo di leader della rivolta sono proprio coloro che non sono vittime dell’oppressione razziale»; io se non vi dispiace scomoderei Herbert Marcuse: «La verità è che la libertà e la soddisfazione stanno trasformando la terra in un inferno» (e lo scriveva quando molti di noi neppure erano nati, e quelli che lo erano non avevano l’asciugatrice e tutto il tempo liberato con cui notificare le loro giuste indignazioni al mondo).
Io gli americani e il loro complesso dello schiavismo li capisco, mica dev’essere semplice sapere che, quando sei bianco e parli con un nero, sei un discendente di padroni di schiavi che parla con un discendente di schiavi. (Una volta proprio Thomas Chatterton Williams mi ha fatto notare che Barack Obama è figlio d’un padre sì nero ma nato e cresciuto in Kenya: non discende dallo schiavismo. Quando hanno eletto un presidente nero, gli americani hanno eletto un nero che non li facesse sentire troppo in colpa).
Ieri Stelter ha ricordato che, quando avevano parlato, Kirk gli aveva detto che lui faceva propaganda per l’ideologia del parlare con quelli che non sono d’accordo con te, che mi sembra la cosa più rivoluzionaria, e più autenticamente impopolare, che si possa fare in questi tempi di curve da stadio. Chissà che fine ha fatto quell’apocrifo Voltaire sul dare la vita per difendere le idee che non condivido: siamo diventati un’umanità che preferisce toglierti la vita, se esprimi idee che non condivide.
Credo che l’assassinio di Charlie Kirk porterà alla destra americana un consenso assai più grande di quello che avrebbero ottenuto se l’attentato a Trump del 2024 fosse riuscito, per ragioni meramente iconografiche. Trump era un vecchio col parrucchino. Kirk era un sorridente padre di bambini piccoli: mi pare la cosa più vicina all’omicidio Kennedy successa di recente nella politica americana, da un punto di vista d’immagine, nella società dell’immagine.
Però questa cosa non è in grado di capirla la sinistra il cui commento a un tizio morto ammazzato è «Lol» (di come nessuna persona normodotata usi «Lol», di come «Lol» sia un’espressione che svela la stupidità dello scrivente quant’altre mai, di queste tre lettere da ritardati parliamo un’altra volta). Se sei bianco e di destra e persino maschio etero sei comunque privilegiato, morto ammazzato ma comunque meno vittima di quelli che subiscono le microaggressioni di sguardi storti per strada.
Uno dei più affascinanti casi di confusione tra colore della pelle e privilegio avvenne nell’estate di cinque anni fa, quando Edward Enninful era il direttore dell’edizione inglese di Vogue. Enninful accusò di razzismo un custode del palazzo della Condé Nast che, non riconoscendolo, non voleva fargli usare l’ascensore per i dirigenti. Tutti i famosi che vi possono venire in mente solidarizzarono con Enninful non in quanto potente direttore ma in quanto nero evidentemente discriminato. Discriminato da uno che guadagnava un ventesimo di lui e venne immediatamente licenziato.
Enninful ha una nuova rivista, esce oggi e ha in copertina Julia Roberts. Mentre scrivo questo articolo, mi passa davanti un video promozionale. Edward e Julia parlano, e mentre parlano lui la tiene per mano. Chissà cosa succederebbe se un direttore bianco osasse toccare un’attrice nera con cui non è fidanzato, chissà quanto indignato rumore di fondo ci toccherebbe.
Ieri mi è passato davanti il video in cui una tiktoker americana nera spiegava quanto sono razzisti gli italiani partendo dal caso della non domanda a Venezia. Mi ha fatto ridere perché la tizia non si ricordava il nome di Andrew Garfield, e quindi ha detto «that dude», quel tizio. Che va benissimo, perché Garfield è bianco, è maschio: è uno che se non ti ricordi il nome è solo un nome che non ti ricordi e non il simbolo di qualche discriminazione.
Io, che non sono esattamente la più attenta a non dispiacere ai commentatori, non ho mai visto nessun’opera con dentro Ayo Edebiri, ma ogni volta controllo il suo nome, perché so che se scrivessi che assieme a Garfield e Roberts c’era anche «l’attrice nera, cosa, lì, come si chiama», ne deriverebbe un tamponamento a catena, e io mi picco di far partire solo i tamponamenti a catena che cerco e non quelli dovuti a non contezza dei tic del presente.
Però converrete che è abbastanza comico: quel che l’avere portato gli avi della tiktoker in catene dall’Africa, e averli ridotti in schiavitù e fatti lavorare nei campi di cotone, quel che i suoi nonni vissuti come cittadini di seconda classe nell’America segregazionista hanno procurato a lei, come vantaggio, è potersi dimenticare i nomi senza che ne nasca un incidente diplomatico. Siamo sicuri che sia una forma utile di pareggio?
Un’ultima cosa, ma non meno importante, anzi per quanto mi riguarda forse di più. Io i filmati non li voglio vedere. Non ho mai guardato un’immagine di nessuna guerra, non voglio vedere Iryna accoltellata, non voglio vedere Charlie con una pallottola nella carotide. Ma non credo che dovreste guardarli neanche voi.
Non è vero, come dicono i fanatici da quell’altro lato, che vanno guardati per capire fin dove arrivi la violenza umana: lo sappiamo già, dove arriva, mica abbiamo quattro anni e crediamo a Babbo Natale. Vedere tutto contribuisce invece, ne sono convinta, ad anestetizzare le nostre reazioni. A convincerci che sia tutto videogioco, tutto meme, che Luigi Mangione sia una figurina divertente, che di uno che non la pensava come noi e muore si possa, come hanno fatto commentatori di sinistra impegnati a dimostrare le ragioni di Nate Silver, scrivere «Lol».
Scusate se invece di usare l’appropriatissimo “Rumore di niente” di De Gregori cito di nuovo Marcuse, ma «mi sembra che l’arte come conoscenza e anamnesi dipenda in grande misura dal potere estetico del silenzio […] Il rumore è dovunque, il compagno dell’aggressione organizzata». È una conferenza di cinquantotto anni fa. Sentissi oggi, che perpetuo e indomabile rumore di fondo, Herbert.
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