Il dibattito politico sulla Palestina è fermo agli slogan da campagna elettorale

Settembre 25, 2025 - 14:00
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Il dibattito politico sulla Palestina è fermo agli slogan da campagna elettorale

Il dibattito tra governo e opposizione su Gaza e sul riconoscimento dello Stato di Palestina cade in piena campagna elettorale per le Regionali, e così è ridotto a un inutile scontro propagandistico. È un peccato perché, per quanto riguarda soprattutto Partito democratico, Italia Viva, Azione, Forza Italia e Fratelli d’Italia, un confronto serio sui contenuti avrebbe potuto portare due terzi del Parlamento su una posizione unitaria dell’Italia. Sarebbe stata un’importante carta da giocare sulla scena europea e internazionale.

Vediamo comunque di ritornare sui punti centrali del tema. Il primo, che l’attuale segretaria del Pd Elly Schlein dimentica colpevolmente, è che sotto accusa per quanto accade a Gaza non è lo Stato di Israele, ma il governo di Israele. È il governo di Benjamin Netanyahu, che tutto indica cadrà con le prossime elezioni perché sarà abbattuto – lo rilevano da mesi tutti i sondaggi – da un enorme movimento di massa e di opinione, di cui la sinistra italiana mai parla e a cui non fa riferimento. Un movimento che ha riempito le piazze israeliane con milioni di manifestanti.

Il secondo punto centrale è che il tanto invocato riconoscimento dello Stato di Palestina è puramente un atto politico, senza alcuna conseguenza pratica. Questo dato viene sempre sottaciuto da chi lo propone come fosse una panacea, decisiva per porre fine alla guerra. Questo riconoscimento non impone infatti al governo Netanyahu di fermare o sospendere la guerra di Gaza, obiettivo primario oggi, e non ha alcuna conseguenza pratica per varie ragioni. Innanzitutto, solo il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha il potere legale per decretare la nascita di uno Stato, ma questa scelta è bloccata dal veto degli Stati Uniti. Il fatto che centocinquantadue nazioni abbiano riconosciuto uno Stato che peraltro ancora non esiste non ha alcun effetto sul piano pratico. Peggio ancora, permette ad Hamas di dichiarare, come ha fatto, che il riconoscimento internazionale di questo Stato palestinese è una propria vittoria, prodotta dal pogrom del 7 ottobre e dalla ignobile presa degli ostaggi.

L’altra ragione sostanziale, collegata alla prima, è che la legalità internazionale, inclusi gli Accordi di Oslo tra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin, prevede che lo Stato di Palestina venga definito nei suoi confini territoriali e nelle sue prerogative (in primis se sia dotato o meno di forze armate) solo ed esclusivamente attraverso una trattativa con il governo di Israele, potenza occupante.

Ma in realtà il fatto capitale, il vero punto centrale della guerra di Gaza, non è lo Stato di Palestina. La guerra è nata e si è sviluppata infatti per tutt’altra ragione: un atto di pirateria terroristica da parte di Hamas, il pogrom del 7 ottobre 2023 di 1.240 israeliani e l’atroce presa di duecentocinquanta ostaggi, inclusi trenta bambini, quasi tutti morti in prigionia nei bunker. Atto finalizzato dai terroristi a prefigurare la scomparsa e l’eliminazione degli ebrei e dello Stato ebraico, non certo i due Stati.

Con un eccellente articolo su Repubblica, Massimo Recalcati ieri ha riportato il dibattito su Gaza alla sua reale dimensione e alla vera domanda che è indispensabile porsi oggi: «Perché Hamas non libera gli ostaggi?». Il punto, ha scritto Recalcati, «è l’assenza assordante a sinistra, ma, più in generale, nel dibattito politico, di questa domanda, perché non è affatto una domanda secondaria: perché Hamas non libera gli ostaggi? Il loro corpo invisibile agli occhi del mondo non avrebbe il pieno diritto di reclamare la sua esistenza offesa? Cosa significa vivere diventando scudi umani? Possiamo averne idea? Esiste una graduatoria dell’orrore? Di fatto, la scelta politica di Hamas di non liberare gli ostaggi ha trasformato il popolo di Gaza in un bersaglio militare».

Da qui, dunque, dovrebbe svilupparsi il dibattito politico e civile tra le forze politiche su Gaza: sulle ragioni evidenti per le quali Hamas non ha liberato e non libera gli ostaggi, ottenendo così l’immediata fine della guerra israeliana su Gaza.

Se si ragiona su questa domanda centrale, si arriva a un passaggio indispensabile per quanto riguarda lo Stato di Palestina: quando mai sorgerà, e se sorgerà, è indispensabile che Hamas non faccia parte, neanche marginalmente, del processo politico.

Emmanuel Macron e Mohammed bin Salman hanno lavorato negli scorsi mesi a un documento politico, approvato da centoquaranta nazioni in sede Onu, che condanna il pogrom del 7 ottobre, chiede l’immediata liberazione degli ostaggi ed esclude Hamas dalla gestione politica del futuro, auspicato, Stato di Palestina.

Con questo documento – e nel suo intervento all’Onu a favore dello Stato di Israele, ma anche feroce nella critica al governo di Israele – Macron ha posto le stesse pregiudiziali poste da Giorgia Meloni nella preannunciata mozione di maggioranza: liberazione senza condizione degli ostaggi e nessun futuro politico per Hamas in Palestina. La differenza tra la posizione della Francia, del Canada e dell’Australia, e quella della premier italiana, è tutta qui, in una precondizione esplicita o implicita.

Oggi, se si riuscisse a evitare il clima da campagna elettorale, sarebbe un’ottima cosa se il confronto parlamentare tra maggioranza e opposizione ruotasse sulla condivisione o meno di questo documento, votato anche dal governo italiano, che delinea una tabella di marcia attendibile anche oltre la guerra di Gaza, per una pacificazione nella regione, nella continuità con gli Accordi di Abramo. Ma non sarà così.

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Redazione Redazione Eventi e News