Un’Europa più solida è garanzia di indipendenza e competitività, dice Sandro Gozi

«L’Europa degli Stati membri, così com’è, non basta più. Se vogliamo esistere e non subire, se vogliamo essere leader e non follower, se vogliamo essere indipendenti e non asserviti ai cinesi, ai russi o a Donald Trump, dobbiamo assolutamente riformare l’Europa in senso federale». A parlare è Sandro Gozi, deputato del gruppo Renew Europe al Parlamento europeo, nonché segretario generale del Partito Democratico Europeo. Il 23 settembre 2025, la commissione Affari costituzionali ha adottato a larga maggioranza il suo “Rapporto sulle conseguenze istituzionali e politiche dei negoziati di allargamento dell’Unione europea”. «Il messaggio-chiave della mia iniziativa è riformare l’Unione per unire l’Europa», continua Gozi. Un modo per difendere la democrazia in questi tempi impazziti.
Se i punti centrali del Rapporto venissero approvati durante la Plenaria di ottobre diverrebbero una posizione ufficiale del Parlamento europeo. Presa in mezzo fra le strategie imperialistiche della Russia e della Cina, e frenata da questa versione trumpizzata degli Stati Uniti, l’Unione europea deve oggi trovare la forza necessaria per rispondere alle sfide geopolitiche che la attendono.
Eurodeputato Gozi, partiamo dal quadro generale: ci presenti il suo Rapporto.
Al Rapporto ho lavorato prima dell’estate, ed è stato sottoposto all’inizio di settembre. Poi martedì 23 è stato adottato a larga maggioranza dalle forze pro-europee (Ppe, S&D, Renew Europe e i Verdi). Adesso dovrebbe andare alla Plenaria di ottobre. Il rapporto riflette finalmente le priorità del Partito Democratico Europeo e di Renew, priorità che avevamo espresso in un policy paper a luglio.
Il primo grande tema affrontato è quello dell’allargamento, tema intimamente connesso con quello di “unificazione” che lei auspica. Per allargamento si intende estensione dell’Ue a tutti quegli Stati che stanno ancora affrontando il processo di integrazione, che hanno fatto domanda e che attendono una risposta?
Esattamente, si tratta di tutti i Paesi candidati all’integrazione dell’Unione europea. Io preferisco parlare però di unificazione continentale: “Allargamento” si usa perché è il termine tecnico del processo, però io credo che la vera sfida storica sia unificare il continente. E per unificare il continente dobbiamo riformare l’Europa. Il messaggio-chiave del mio rapporto, infatti, è riformare l‘Unione per unire l‘Europa. Queste riforme indispensabili sono anche delle risposte alle sfide geopolitiche e globali che l’Unione deve affrontare.
Pensa di incontrare resistenze da parte di certi Paesi? Quali teme siano gli ostacoli?
Il punto politico è che ci sono state molte difficoltà nel cooperare tra le forze di maggioranza in Parlamento europeo, in questo primo anno. Noi, come Renew Europe, a luglio abbiamo provocato una crisi politica che ha raggiunto un momento di apice nel dibattito sullo stato dell’Unione, tenutosi a settembre a Strasburgo. Durante quel dibattito sia i popolari che i socialisti che i verdi, noi compresi – ma anche la stessa Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen – abbiamo riaffermato la volontà di lavorare insieme su alcune priorità condivise. Questo rapporto, se venisse approvato dalla Plenaria di Strasburgo, diventerebbe la prima iniziativa politica condivisa da tutte le forze che hanno sostenuto von der Leyen. Un punto chiave è proprio quello della riforma della governance europea per unificare il continente. Ne ho già parlato con la Presidente del Parlamento europeo, ho già informato alcuni capi di Stato e di governo, lo stesso Presidente del Consiglio Europeo, Antonio Costa, e ho chiesto, in accordo alla Presidente del Parlamento europeo, di difendere l’iniziativa al summit che si terrà in dicembre, il Consiglio Europeo a Bruxelles. Quindi per noi adesso il punto fondamentale è arrivare ad avere una forte maggioranza pro-europea che approvi questa iniziativa politica e che permetta al Parlamento di rilanciare il dibattito. E non dovrebbe essere difficilissimo lanciare il dibattito, perché basta una maggioranza semplice di leader al Consiglio europeo – quattordici su ventisette – per avviare il processo. Il fatto che l’Ungheria, l’Italia o la Slovacchia possano opporsi, quindi, non dovrebbe essere un problema. Intanto apriamo il dibattito. E visto che tutti – anche l’estrema destra di Giorgia Meloni in Italia – dicono di voler cambiare l’Europa, il mio rapporto indica idee molto concrete per farlo. Quindi cerchiamo di aprire il dibattito. E poi vedremo chi vuole cosa.
Siamo in un’epoca particolarmente delicata, da un punto di vista geopolitico. L’Europa rischia di essere debole, se rimane divisa?
L’Europa unificata a livello continentale può essere a trovare la forza necessaria per rispondere alle strategie imperialistiche della Russia, della Cina e di Donald Trump. Però questo nuovo peso geopolitico possiamo acquisirlo attraverso l’unificazione del continente. Ma l’unificazione non è sufficiente, se non si rende l’Unione più efficace eliminando il veto, e più potente aumentando le capacità di bilancio, promuovendo gli investimenti e promuovendo l’integrazione militare.
Passiamo alle tre sfide che ha indicato nel rapporto. Può spiegarle brevemente?
La prima è la sfida dell’efficacia. Per vincerla bisogna eliminare il veto e generalizzare la maggioranza qualificata. Per ora, in certe iniziative, basta un voto contrario per mandare tutto all”aria. Eliminare il veto significa rendere tutto molto più facile, per i gruppi di Paesi che vogliono accelerare la loro unione in materia militare e di investimenti. È semplice: chi vuole integrarsi di più può farlo senza obbligare gli altri a seguire, ma chi non vuole seguire non può bloccare i Paesi che vogliono andare avanti.
La seconda?
La seconda è la sfida della potenza. Cioè andare oltre l’uno per cento della ricchezza europea come tetto massimo del bilancio. Sono necessarie nuove risorse per l’Unione europea, e questo è possibile percorrendo diverse vie: ad esempio, imponendo la tassa carbone alle frontiere esterne dell’Unione europea, a cui si potrebbe aggiungere una tassa digitale sulle big tech. Insomma, creare dei nuovi fondi per aumentare la capacità di investimento dell’Unione europea e, parallelamente, rendere permanente e strutturata l’attuale cooperazione in materia militare. In questo momento, a questo proposito, ci sono nuove iniziative come la Coalizione dei volenterosi di Emmanuel Macron, Keir Starmer e altri premier, ma credo che per essere davvero potenti si debba rendere strutturate e permanenti queste iniziative. Non possono essere lasciate all’improvvisazione, al caso, non possono essere a geometria variabile. Lo ripeto: dobbiamo rendere permanente e strutturata la cooperazione in materia militare.
La terza sfida?
È quella della democrazia. Questo vuol dire riformare la legge elettorale europea, creare delle liste transnazionali che permettono di eleggere una parte dei deputati europei votando direttamente i partiti politici europei, creare cioè uno spazio transnazionale politico, aumentando i poteri del Parlamento europeo e decidendone la composizione nell’Unione allargata. Dovremo stabilire un tetto, è chiaro: più Paesi ci sono, più deputati dovranno avere un seggio. Quindi, ricapitolando, c’è un tema di poteri del Parlamento europeo, di composizione del Parlamento stesso e di modalità in cui eleggiamo i deputati europei. Questa è la terza sfida e anche questa è importante: possiamo aumentare la potenza militare, ma per farlo abbiamo anche bisogno di rafforzare il controllo democratico.
Attualmente quale è lo stato dell’arte della Cooperazione strutturata permanente? È in una situazione di stallo? L’abbiamo usata spesso per dei progetti industriali specifici, ma non l’abbiamo mai usata in maniera strategica per creare un vero sistema europeo di Difesa. In realtà la mia proposta è che questa Cooperazione strutturata permanente in ambito militare, che chiamiamo Pesco, può essere usata in maniera strategica. Utilizzare cioè le clausole dell’Art. 42 e seguenti del Trattato dell’Unione europea per rendere veramente strutturata e permanente la cooperazione in materia militare di Difesa. Questo assicurerebbe la necessaria continuità alle iniziative attuali in materia di Difesa. Questo punto è fondamentale: altrimenti, quando la tensione si abbasserà, le iniziative – che per ora sono improvvisate perché stiamo agendo in tempi di urgenza – non potrebbero avere un seguito. Invece credo che questa risposta, messa in atto dall’Unione europea in particolare come reazione all’aggressione russa dell’Ucraina, vada resa permanente, nonché strutturata all’interno dei Trattati dell’Unione europea. Per darle più efficacia e più continuità, più durata nel tempo.
Attualmente non esiste un esercito europeo, ad esempio.
No, non esiste. Nella mia proposta di sistema europeo della Difesa, queste cooperazioni strutturate e permanenti tra Stati europei possono essere aperte anche a Stati non membri dell’Unione europea. Quindi questo sistema europeo della Difesa potrebbe essere aperto al Regno Unito, alla Norvegia, al Canada.
La crescita militare che forma avrà? Maggiore investimento nella difesa significa un maggiore investimento in un’industria bellica europea o in acquisti di rifornimenti militari esteri? Crede sia necessario investire in un’industria bellica europea, nel quadro della Pesco?
Sì, la risposta è sì. Dobbiamo aumentare la produzione industriale europea introducendo il principio della preferenza europea, introducendo cioè una sorta di Buy European Act. E anche nel momento in cui sono dei consorzi militari aperti a produttori non europei, la maggioranza di produzione del consorzio deve essere comunque Made in Europe.
In che modo il suo Rapporto si pone rispetto al Rapporto Draghi sulla competitività europea?
È in piena continuità. Mario Draghi menziona il tema della riforma della governance e anche la riforma dei trattati, alla fine del suo Rapporto. Questa menzione giunge verso la fine perché credo abbia voluto evitare che gli venisse detto: “Ah beh, allora se bisogna riformare i trattati no, è troppo complicato, non cominciamo nemmeno, a osservare il suo Rapporto”. È stata una scelta di prudenza, quella di Draghi. Nell’affrontare il tema della governance bisogna evitare che le difficoltà delle riforme istituzionali non siano una scusa per non fare nulla, come alcuni vorrebbero fare. Ritengo invece che oggi ci sia l’assoluta necessità di riportare al centro il tema della governance. Sono molto aperto e spingo per entrambe le idee: la prima, sfruttare tutte le possibilità esistenti oggi nei Trattati per avere più efficacia, più potenza e più democrazia. Ma – e questa è la seconda – prendere atto fin da adesso che ci sono degli aspetti che richiedono la riforma dei Trattati e quindi cominciare a parlarne il prima possibile, perché tutte le riforme avvengono il prima possibile.
Il secondo punto, quello relativo alla Difesa, è in linea con il progetto di ReArm Europe che è stato presentato da Ursula von der Leyen?
Assolutamente sì. La parte che mi interessa di più è la parte del programma Safe, con i centocinquanta miliardi che sono stati messi a disposizione, e su cui adesso i Paesi stanno facendo le loro offerte, proprio per sviluppare dei progetti industriali comuni europei: quella è la via maestra per arrivare a un vero sistema europeo integrato della Difesa.
Ultime domande. Siamo ancora in un’Europa delle nazioni? E crede che in futuro si riuscirà a raggiungere uno Stato federale europeo?
Fortunatamente non siamo più in un’Europa solamente delle nazioni: l’Europa delle nazioni è quella che si è fatta due guerre mondiali, cioè due guerre civili europee. Per fortuna nell’Unione europea siamo già in un’Unione degli Stati membri, non delle nazioni: un’unione di Stati e popoli che hanno condiviso – e devono condividere – parte della loro sovranità per tutelare i propri valori, i propri interessi e la propria identità. Credo però che l’Europa degli Stati membri di oggi non basti più: se vogliamo esistere e non subire, se vogliamo essere leader e non follower, se vogliamo essere indipendenti e non asserviti ai cinesi, ai russi o a Trump, dobbiamo assolutamente riformare l’Europa in senso federale. Non per farne uno Stato europeo, ma per creare una federazione degli Stati membri. Che tra l’altro è la migliore garanzia delle diversità e dell’entità nazionali e locali, perché il federalismo è il contrario del centralismo. Il federalismo è un metodo che assicura più efficacia e più democrazia a ogni livello di governo.
Come la intende la Federazione?
È più condivisione della sovranità, esercizio comune e congiunto della sovranità nei nuovi settori in cui è assolutamente necessario – la sicurezza, la difesa, l’immigrazione e la politica estera – ed è garanzia di lavorare al livello più vicino possibile ai cittadini ogni qualvolta questo sia possibile. Quindi anche ripensare le politiche europee per avvicinarle ancora di più ai cittadini. È una delle ragioni per cui sono contrario alla centralizzazione della politica della Coesione che è stata proposta da Fitto e da von der Leyen. Ritengo che la politica della Coesione debba rimanere, ma debba essere resa sempre di più decentrata. È anche questo un aspetto del federalismo europeo: garanzia di territorio e identità.
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