I ricercatori in Italia sono iperqualificati, ma sempre precari

Settembre 26, 2025 - 21:00
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I ricercatori in Italia sono iperqualificati, ma sempre precari

Giovani, determinati e cervelloni. Sono fra i più istruiti d’Italia, eppure eternamente precari. Hanno alle spalle in media otto anni di formazione fra lauree e dottorato. Sanno indagare malattie incurabili per trovarne rimedio, progettare politiche pubbliche, costruire reti neurali o interrogare la storia. Poi, il buio. Per chi vuole rimanere all’interno del circuito universitario e mettere le proprie competenze a servizio della ricerca pubblica, si apre una voragine di incertezze. Mesi, più spesso anni, passati a rincorrere un bando, un assegno di ricerca o una borsa, quando va bene. Questa sera le luci degli atenei italiani rimarranno accese ad accogliere la cittadinanza, in occasione della “Notte europea dei ricercatori”, evento giunto alla sua ventesima edizione. Eppure, a leggere l’ultima indagine dell’Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia (Adi), “Il precariato come condizione strutturale del sistema della ricerca e dell’Università in Italia”, si dovrebbe piuttosto accendere un cero.

Sono migliaia i ricercatori che popolano i laboratori delle nostre università, tanti lavorano anche cinquanta ore a settimana, senza tutele. Intanto c’è chi vorrebbe accendere un mutuo o metter su famiglia, ma i contratti che firma dopo il dottorato o i continui spostamenti alla rincorsa di maggiori stabilità non glielo consentono. E gli stipendi non in linea con la media dei colleghi europei o, come fa notare un ricercatore dell’Università di Bologna che preferisce rimanere anonimo, può essere avvilente perché «c’è chi con meno titoli, magari solo una magistrale, e lavora per organizzazioni private, magari prende più di me».

Il rapporto dell’Adi raccoglie le voci di circa tremila ricercatori, provenienti da tutte le aree scientifiche individuate a livello nazionale, su condizione lavorativa e prospettive future. I giovani partecipanti, tra i trenta e trentasei anni, sono suddivisi nelle classiche categorie contrattuali da ricercatore, ossia contratto di ricerca – ex-assegnisti di ricerca – , introdotto dal Decreto Legge 71/2024, borsisti e ricercatori a tempo determinato. 

Salta all’occhio la precarietà dilagante. Il 42,8 per cento degli assegni di ricerca e il 50,5 per cento delle borse dura meno di un anno. Al contrario, almeno due anni per i posti a tempo determinato. Un distinguo che avviene non per caso: in genere, assegni e borse vengono finanziati da fondi straordinari che seguono logiche emergenziali, senza una programmazione di ampio respiro, utile a fornire stabilità e qualità della ricerca. I fondi eccezionali Prin/Pon per la maggiore, ma anche sovvenzioni europee, investimenti privati e il più recente Pnrr. Finisce così che solo il venti per cento dei contratti di ricerca sia finanziato con fondi pubblici non soggetti a variazione, per lo meno nel breve periodo, tratti dal Fondo per il finanziamento ordinario delle università (Ffo). Facile intuire come la forma contrattuale che va per la maggiore sia l’assegno di ricerca, per volontà di comprimere i costi del lavoro e incentivi sistemici correlati.

Anche la gestione del Pnrr, occasione di un cambio di rotta nelle politiche di finanziamento della ricerca, si è rivelata infruttuosa. Sono migliaia i progetti a termine avviati, uno specchietto che riflette abbondanza in un primo momento, ma solo fino al 2026, quando gran parte dei ricercatori rimarrà disoccupata. Si tratta di quarantacinquemila dottorandi, venticinquemila assegnisti di ricerca, settemilacinquecento ricercatori di tipo A, quelli a tempo determinato. «Questa è la verità del sistema universitario: si regge su tante persone che non vengono neppure sentite, che continuano a lavorare nei laboratori, negli scavi, nelle aule universitarie, con retribuzioni da fame, come i docenti a contratto per 1.500 euro l’anno. Oppure, lavorano anche mentre percepiscono la disoccupazione, gravando sul lato assistenziale, o addirittura senza», spiega Davide Clementi, segretario nazionale Adi.

Il ginepraio in cui è incagliata ha un punto d’origine nella fine degli anni Novanta, poi prosegue fino al 2010, quando arriva il processo di aziendalizzazione impresso dalla Riforma Gelmini. Da lì si sono susseguiti anni di tagli e compressione dei costi.

Il mese scorso, dopo l’interlocuzione fra Adi e la ministra Anna Maria Bernini, il Decreto Ministeriale 592/2025 ha aumentato la retribuzione minima mensile netta di circa duecentoventi euro per gli incarichi di ricerca, con clausola di indicizzazione all’inflazione, e fissa un trattamento economico minimo a millenovecento euro netti in dodici mensilità per i post-doc. C’è da però da sottolineare che gli incarichi di ricerca sono una parentesi di breve durata in carriera, ottenibili fino a sei anni dal conseguimento della laurea magistrale, mentre le retribuzioni dei post-doc rimangono in mano ai singoli atenei e tutt’ora non hanno diritti sindacali e tutele giuslavoristiche fondamentali. 

C’è ancora tanto su cui metter mano: «Il tema che noi continueremo a sollevare è che questa frammentazione di figure è inefficiente sia per il sistema sia per i singoli. Il problema fondamentale è il labirinto che si presenta di fronte a loro. Quante di queste persone dovranno attraversare contratti precari? Per quanto tempo? L’età media per ottenere una stabilizzazione come ricercatore di tipo B, oggi chiamati RTT, è di quarantuno anni e qualche mese. Pensiamo forse che questa cosa sia positiva? Che le energie migliori dei giovani trovino stabilità a quarantuno anni?», incalza Clementi.

Come se non bastasse, a temprare l’animo dei ricercatori ci si mette anche la riforma, ancora in fase di discussione, dell’abilitazione scientifica nazionale (Asn), il requisito fondamentale per accedere ai concorsi stabilizzanti. Se passasse, verrebbe a mancare uno dei pochi aspetti positivi dell’abilitazione: «È peggiorativa perché la svuota del carattere nazionale, dell’omogeneità dei criteri di valutazione. Darebbe forza ai concorsi locali, al potere ai dipartimenti, alle scelte che vengono compiute da una commissione di cinque persone, di cui un docente interno», dice Clementi.

Certo, è una certificazione che va riformata a monte poiché si basa su un meccanismo perverso di “publish or perish”, pubblica o perisci. I ricercatori sono quindi incentivati a pubblicare quanti più articoli scientifici possibile. Un paradosso che favorisce la ricerca applicativa rispetto ai tempi lunghi necessari alla ricerca di base, l’unica ad aprire scenari nuovi, a fare breccia in conoscenze innovative a beneficio della collettività.

Il fulcro su cui si incontrano tutte le battaglie di chi fa ricerca è il definanziamento sistemico e il paradigma con cui vengono distribuite le poche risorse investite dallo Stato. Sarebbe necessario, come avviene all’estero, farle arrivare direttamente ai ricercatori, non alle università che di frequente le vincolano a progetti specifici, non dettati dall’intuizione del singolo ricercatore.

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