La chiocciola bianca, l’angelo d’oro, e una notte di fuga

L’Angelo, braccia alzate e ali curve, reggeva un enorme guscio di lumaca.
Le ali erano dorate, come la stola sopra la tunica blu. Come la pelle e l’aureola e il viso giovane dell’Angelo. Ma l’oro non era nulla in confronto alla candida perfezione della Chiocciola. Quella spirale bianca a cui Luz si aggrappava tenendosela fissa in mente, occhi dritti al lampadario e unghie infilzate nella coperta di un letto sconosciuto, sopra il quale uno sconosciuto se la stava sbattendo privandola dell’unica cosa che ancora possedeva: la sua verginità.
L’Angelo, così come lo aveva visto in una chiesa di Istanbul, era stato fatto riprodurre da sua madre Ester sul soffitto a cupola del loro grande letto. Questo almeno le aveva raccontato – e Luz aveva creduto – ogni volta che si erano stese l’una accanto all’altra nella nicchia a guardare l’affresco. Che quel sabato 9 gennaio 1909, in un’ora ormai prossima all’alba, probabilmente non esisteva più.
Se le cose fossero precipitate, Ester le aveva detto di correre in un certo quartiere di Granada, a casa del suo avvocato. Lui le avrebbe dato denaro e istruzioni per raggiungere un posto dove sarebbe stata al sicuro. Tale eventualità, pur presentata come una prospettiva remota, aveva dato origine a un piano che sua madre aveva studiato in ogni singolo dettaglio. Senza però mai contemplare l’imprevisto in cui Luz si era imbattuta.
Non erano passate neppure due ore, da quando aveva svegliato l’avvocato picchiando alla sua porta. Lui le aveva aperto in vestaglia; era un uomo basso e robusto e sua moglie era ancora in visita a Madrid per le feste del nuovo anno. L’aveva fatta entrare e le aveva mostrato una piccola valigia già pronta, una busta di banconote e un’elegante scatola di cartone bianco. Le aveva parlato di un biglietto ferroviario, di documenti e di una lettera da esibire una volta arrivata a destinazione. Sapendo che la ragazzina non avrebbe fatto domande o dato risposte, non si era preoccupato di capire cosa fosse successo alla sua cliente. E poi bastava guardare la figlia: stranita, le pupille dilatate, le guance e i vestiti anneriti dal fumo. Le cose non erano andate come Ester avrebbe voluto. Il che non lo stupiva affatto. Nello stato in cui era, Luz non poteva certo sembrargli attraente, ma le aveva comunque riconosciuto una grazia disarmante e in qualche modo appetitosa. Per quella sua purezza ancora infantile, o magari per via del fatto che – come tutti sapevano – aveva smesso di parlare.
Nel fare la proposta si era sforzato di essere chiaro e diretto, senza ricorrere a sguardi ammiccanti o sconcezze: treno, soldi e scatola in cambio della sua gentilezza. Aveva detto proprio così: gentilezza. E lei, che non aveva realizzato a cosa stava acconsentendo, grazie a quella parola balsamica nella sua notte d’inferno lo aveva seguito in camera. L’unica cosa che gli aveva chiesto, a gesti, quando lui le aveva scoperto i seni e la fronte aveva iniziato a sudargli, era stata dove l’avrebbe portata il treno che stava per prendere.
«A Venezia. Inutile che ti sforzi a chiedermi il perché: non ne ho idea. Lasciami fare, non ti farò male». Quindi adesso era lì, sotto l’avvocato che sudava e ansimava e non si decideva a finire. «Non ti farò male» aveva detto, ma poi aveva affondato con intenzione, provando a strapparle un suono qualsiasi. Luz invece si era ritratta in un ricordo, come una lumaca nel guscio.
«Non farà male» era la falsa promessa che tempo prima un dentista aveva propinato anche a Ester, per poi estrarle compiaciuto un molare. Al momento dello strappo lei non aveva fiatato ma poi, all’autista che avrebbe dovuto riaccompagnare il medico in città, aveva ordinato di mollarlo in aperta campagna. Avevano riso per ore, loro due, al pensiero del tizio sotto la canicola con le sue tenaglie.
Il giorno dopo, sua madre aveva fatto dipingere l’Angelo biondo nella nicchia, descrivendo con precisione il sole, lo spicchio di luna e gli astri dorati da disseminare sulla Chiocciola. A lavoro finito, si erano stese per la prima volta a fissare l’attorcigliamento sulla volta. Poi Ester le aveva detto una cosa strana, che Luz bambina non aveva capito. Proprio a quella frase pensava, mentre l’avvocato non si decideva a finire, quando di colpo qualcosa le avvampò tra le cosce e le si arrampicò dentro. Arcuò la schiena e si morse le labbra, per ricacciare indietro l’ondata che la stava spingendo verso un limite ignoto. Così facendo, fece venire l’uomo. Poco dopo, a mollo nella vasca da bagno che lui le aveva messo a disposizione, si abbandonò a una strana sensazione di vuoto che avrebbe potuto esserle fatale e invece le permise di sopravvivere alla notte.
Quella notte, sua madre era bruciata insieme alla Chiocciola e all’Angelo, lasciandole una valigia riempita con cura, dei soldi per raggiungere Venezia e una scatola bianca che l’aspettava ai piedi della vasca da bagno. Stampati sul coperchio, un logo quadrato a forma di labirinto e una parola che forse era anche un nome: FORTUNY.
Tratto da “Il labirinto di seta”, di Anna Samueli, Sonzogno editore, 464 pp, 19€
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