Vent’anni senza Federico Aldrovandi, ucciso dallo Stato che avrebbe dovuto proteggerlo

Settembre 26, 2025 - 13:00
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Vent’anni senza Federico Aldrovandi, ucciso dallo Stato che avrebbe dovuto proteggerlo

Non conoscevo Federico Aldrovandi. Come tanti mi sono scontrato con la sua storia per la prima volta attraverso i giornali. “Ragazzo ucciso da malore”, “Diciottenne va in escandescenze poi crolla sull’asfalto”. Così titolavano il giorno dopo la sua morte durante un controllo di polizia, avvenuta il 25 settembre 2005 in via Ippodromo a Ferrara. I quotidiani locali pubblicarono, non che oggi sia cambiato molto, senza approfondire più di tanto le veline dalla Questura, riportando una ricostruzione ufficiale raffazzonata nella lunga notte e che non ha poi retto ai processi.

Certo io stesso mentre li leggevo storcevo il naso, il ricordo di Genova era per me ancora troppo vicino. Certo in città se ne parlava, ma erano davvero in pochi a coltivare il dubbio. Al tempo, come oggi, frequentavo per impegni istituzionali il Palazzo Municipale estense, dove lavorava Patrizia Moretti. Fu così che per la prima volta raccolsi dalle colleghe di Patrizia il senso di sconcerto, paura e solitudine di chi perde un figlio e si trovava inerme di fronte al muro di gomma dello Stato. Noi tutti però quella foto che di lì a poco Patrizia pubblicò sul blog, non l’avevamo ancora vista. Federico, steso sul banco dell’obitorio con la testa avvolta nel sangue. Un’immagine agghiacciante, tanto difficile da pubblicare per una madre, tanto fondamentale poi per la ricerca della verità e della giustizia.

Nessun malore quindi, ma i segni inequivocabili di 54 lesioni; scopriremo poi solo con i processi dei 2 manganelli rotti e del tentativo di sviare le indagini giocando coi registri in Questura. Un teatrino che ha retto per un po’ anche allo sconcerto dell’opinione pubblica, prima nazionale che locale. Ai presidi per chiedere Verità e Giustizia per Aldro erano davvero in pochi in quel freddo inverno. Poi la svolta. Prima il Sindaco Gaetano Sateriale che alla Festa della Polizia Municipale mette pubblicamente in dubbio la versione ufficiale: “Ferrara non è una città omertosa”. Poi la testimonianza di Anne Marie Tsengue, accompagnata in Procura dall’allora Vicesindaco Tiziano Tagliani. Quindi le interlocuzioni con Luigi Manconi, sottosegretario alla Giustizia e infine la visita del Ministro degli Interni Amato a Ferrara e l’incontro con la famiglia. A cascata la rimozione del Questore, la manifestazione nazionale con oltre 10.000 persone per le strade di Ferrara a chiedere verità e giustizia. Poi la lunga battaglia nei processi, guidata dall’avvocato Fabio Anselmo.

La storia giudiziaria ci ha restituito una giustizia molto parziale: la condanna 3 anni e 6 mesi di reclusione per omicidio colposo con “eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi”. Un esito certamente condizionato dagli iniziali depistaggi delle indagini, poi acclarati nel processo Aldrovandi bis, ma altrettanto non scontato come dimostrano in quegli anni i casi di Aldo Bianzino, Riccardo Magherini o Giuseppe Uva. Federico era un ragazzo non molto diverso da come lo siamo stati tutti a 18 anni. Un ragazzo come tanti, con i suoi pregi, i suoi difetti, le sue passioni e i suoi sbagli, i suoi affetti. La verità di quella notte probabilmente non la conosceremo mai. Ma la questione non è questa. Non è se avesse o non avesse fatto qualcosa. Fosse davvero esagitato, o stesse dormendo, l’unica realtà con cui oggi dobbiamo fare i conti è che coloro che dovevano proteggere la sua vita, anche nel momento in cui lo avessero dovuto contenere, gliel’hanno tolta. E che durante e dopo l’intervento hanno tentato di coprire ogni traccia dipingendolo come un drogato, un extracomunitario, uno dei centri sociali. Avrebbe tirato testate contro i pali della luce, come un pazzo.

Come raccontano bene le ricostruzioni di Vincenzo Scalia nel suo Incontri troppo ravvicinati (Manifesto Libri, 2023) il potere ha cercato di costruire prima, durante il processo e ancor oggi, una narrazione fatta di stigma e alterità. Sicuramente per identificare un nemico e individuare un alibi capace di allontanare le proprie responsabilità, ma soprattutto per convincerci che noi “ragazzi per bene” non avremmo mai rischiato qualcosa. Non per niente la perizia tossicologica divenne la nuova linea Maginot per la difesa. Gli esami rilevarono solo tracce di morfina e ketamina, e alcool in quantità legale per guidare. Ma questo bastava per dire “era un drogato”, così confermando quello che da settimane stavano ripetendo ai genitori. Federico aveva quindi certamente usato droghe, legali e illegali. Come milioni di persone fanno ogni sera in Italia. Altrettanto certamente non sono state la causa della morte. Anche se fossero state queste la causa di un suo comportamento esagitato quella notte – ma avrebbe dovuto avere ben altre sostanze nel corpo – questo non giustifica l’uso di quella violenza da parte degli agenti. L’uso della forza, da parte di chi ne ha il monopolio legale, deve essere proporzionato e utilizzato quando necessario. Dobbiamo ricordarcela bene oggi la vicenda di Aldro, anche alla luce di quanto sta succedendo nel paese con l’utilizzo del Taser. La vita delle persone è sacra, anche e soprattutto quando il corpo è nella custodia dello stato.

Vent’anni dopo quella tragica vicenda che cosa ci resta?

Di tangibile c’è solo il reato di Tortura, introdotto un po’ troppo timidamente, ma nonostante questo ancora avversato dalla destra. Restano invece nella memoria tante dichiarazioni di questi anni di politici e sindacalisti delle forze dell’ordine, più interessati a raccogliere voti o tesseramenti fra le forze dell’ordine che a rispettare lo Stato di Diritto e la vita umana. Il pensiero che il “reato di tortura” impedirebbe agli agenti di “fare serenamente il loro lavoro” accomuna molti esponenti del Governo Meloni ed è lo specchio di un sentimento molto diffuso. Anche nell’opinione pubblica che in questi decenni è stata educata a preoccuparsi molto più di una vetrina rotta durante una manifestazione piuttosto che delle modalità di arresto e detenzione di una qualsiasi persona migrante.

Non può essere un caso che il viso di Aldro, raffigurato come icona in tante curve italiane, spesso non possa entrare allo Stadio. È stato in passato addirittura multato dal Giudice Sportivo, in quanto considerato “provocazione rivolta alle forze dell’ordine”. Sembra quasi che la provocazione sia il fatto stesso che gli agenti che hanno causato la morte di un ragazzo diciottenne incensurato siano stati condannati (pur continuando a vestire la divisa). Come se si fosse toccato l’intoccabile, come traspare anche dalle reazioni alle inchieste più recenti di violenza di Stato, a partire dal processo per i pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. L’intoccabilità della divisa a prescindere, incapace di distinguere tra le mele quelle marce, o forse meglio che rifiuta di guardare nel cesto.

Ci resta una grande lezione di umanità e impegno civile da parte dei familiari e degli amici di Federico e della società civile che sin da subito ha accompagnato la lotta per la verità e giustizia. Una storia che in questi giorni del ventennale viene ripercorsa a Ferrara. Oggi verrà intitolato a Federico Aldrovandi il parchetto di fianco all’Ippodromo. Un gesto non scontato da parte dell’Amministrazione comunale guidata dal Sindaco Alan Fabbri (Lega) che sembra aprire alla possibilità che la vicenda di Aldro diventi davvero patrimonio dell’intera città. Dopo la proiezione pomeridiana del bel documentario di Fillippo Vendemmiati È stato morto un ragazzo (disponibile on line su OpenDDB) alle 21 ci sarà una fiaccolata in via Ippodromo. Domani invece un convegno sul ruolo della politica, con Fabio Anselmo, Ilaria Cucchi, Marco Furfaro, Riccardo Magi e Stefania Ascari (Ore 17-19 Sala del Refettorio, Via Boccaleone 19). Sabato sera il ritorno del concerto (Parco Coletta), per ricordare Federico con la musica che amava.

Non conoscevo Federico Aldrovandi. Ho avuto in questi anni l’onore di conoscere la sua famiglia e i suoi amici. A loro va l’immensa gratitudine di chi continua a credere che possa esistere uno Stato capace di guardarsi dentro, di chiedere scusa e di cambiare. La loro tenacia ci ricorda che la memoria non è solo un atto di pietà che guarda al passato ma un impegno quotidiano nel presente: pretendere trasparenza, proteggere i più fragili, vigilare perché il potere non diventi abuso.

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