Quarant’anni da missionaria contro la fame nel mondo mi hanno insegnato che commuoversi non basta: bisogna muoversi

Il volto della fame e dell’assenza cronica di cibo porta a un unico approdo: la morte. È un destino che ho visto troppe volte per illudermi di poterlo addolcire con parole più gentili. Eppure in tanti anni ho scoperto anche un’altra verità: quella traiettoria non è inevitabile. Se qualcuno decide di mettersi in mezzo e di spezzare quello schema micidiale il finale può cambiare. E non è un miracolo riservato ai santi: è una scelta.
Quarant’anni fa, da giovane missionaria della Comunità Papa Giovanni XXIII, trovandomi davanti ai bambini malnutriti che arrivavano nel nostro asilo, dissi a don Oreste Benzi, fondatore della Comunità, che con 10mila lire al mese avremmo potuto dare a ciascuno di loro almeno un pasto al giorno. Lui mi guardò con quell’urgenza che non ammetteva rinvii e disse solo: «Vado io, lo dirò a tutti: vedrai che ci aiuteranno». È iniziata così, nell’autunno del 1985, la campagna solidale “Un Pasto al Giorno” (quest’anno si terrà in tutte le piazze d’Italia il 27 e 28 settembre.): una porta aperta che, grazie a chi ha scelto di non voltare lo sguardo, si è spalancata trasformandosi in salvezza per migliaia di bambini. Ne ho visti alcuni arrivare in braccio alle sorelle più grandi dopo aver percorso otto chilometri a piedi solo per ricevere un uovo. Ho visto madri chiedere non elemosina, ma un prestito «per poter dare da mangiare ai miei figli»: non briciole, ma dignità. E ho imparato che se riduci la povertà a un pacco di viveri tradisci la giustizia, ma se discuti di massimi sistemi e di progresso scientifico senza mettere nulla nel piatto di chi ha fame… tradisci la vita. Ed è in questo equilibrio — tra il pane che salva una vita oggi, e la battaglia affinché nessuno debba chiederlo domani — che la nostra storia ha trovato la sua strada.
Sono passati quarant’anni, che portano con sé anche dati e numeri. Oggi tra centri nutrizionali e sostegni alimentari alle famiglie in difficoltà, la Comunità Papa Giovanni XXIII garantisce 7 milioni e mezzo di pasti ogni anno in tutte le sue realtà di accoglienza in 40 Paesi del mondo e altro ancora lo fa il progetto Rainbow, della ong Condivisione fra i Popoli, promossa sempre dalla Comunità. In Zambia ad esempio, solo per il cibo, la spesa annuale oscilla tra 150mila e oltre 200mila euro; a questo si aggiungono gli interventi mirati per il supporto dei ragazzi di strada e per il sostegno scolastico. E poi ci sono le mense, i progetti del microcredito, le filiere agricole, le scuole, la formazione degli operatori sanitari… In tanti hanno provato a toglierci speranze e risorse, ma altrettanti ci hanno restituito fiducia, lavoro, riscatto: in questi quarant’anni la Provvidenza ha avuto il volto di chi ha donato un pasto, la retta di una scuola o un seme da piantare; un fiume discreto che senza far rumore ha saputo cambiare i luoghi che ha attraversato, ha scaldato i cuori e scosso le coscienze.
Il bilancio però non si misura solo con dati e numeri: “Un Pasto al Giorno” in questi quarant’anni ha insegnato a me — e a tanti altri — a guardare in faccia la realtà. Perché non basta distribuire il pane: quel pane si moltiplica solo se ciascuno ne mette un pezzo del proprio e lo condivide. Ma il cammino di questa campagna ricorda anche che non ci si può fermare al gesto immediato: occorre chiamare i problemi con il loro nome — fame, corruzione, guerre — e agire su più fronti affinché l’aiuto concreto di oggi porti alla rimozione delle cause di domani. Perché un aiuto che non mette in discussione le radici dell’ingiustizia rischia di diventare complice del sistema che la alimenta. Ed è proprio per questo che la lezione è tanto semplice quanto severa: non basta commuoversi, bisogna muoversi. Partendo da questo impegno, “Un Pasto al Giorno” dal 2009 ha preso la forma anche di un evento di piazza: una presenza diffusa con cui ogni anno la Comunità Papa Giovanni XXIII, alla fine del mese di settembre, torna nelle città e nei paesi di tutta Italia per raccontare con semplicità che un gesto piccolo e concreto come una donazione può davvero cambiare una vita.
Questa storia da allora non si è mai fermata e proprio la sua forza, nel tempo, ci spinge a guardare avanti. I prossimi quarant’anni non chiedono nostalgia, ma un salto di qualità: continueremo a nutrire moltiplicando i centri nutrizionali comunitari e legandoli alle filiere agricole locali stabili, rafforzeremo il microcredito che dà alle famiglie la possibilità di provvedere in autonomia ai propri figli, investiremo nella scuola — perché un bambino che oggi mangia, domani studia — e nella formazione di operatori sul posto. Ma allo stesso tempo continueremo a portare la nostra voce ovunque, affinché la cooperazione non sia la foglia di fico di bilanci che trovano miliardi per le armi e briciole per la vita. Senza giustizia l’aiuto si consuma, ma con giustizia — anche piccola, quotidiana, testarda — l’aiuto mette radici e diventa futuro. E sappiamo già che sarà faticoso, perché in un mondo stanco e provato da guerre e disastri dovremo trovare il coraggio di stare ancora dalla parte della vita. Certo, non riusciremo a prendere per mano ogni bambino di ogni conflitto in ogni angolo del mondo, ma possiamo decidere, qui e ora, di non voltare lo sguardo: offrire quel pasto quotidiano, sostenere una mensa, finanziare un centro, piantare un seme, difendere politiche giuste. È in questa traiettoria — tra la fame e la morte — che continueremo a metterci in mezzo, con la mitezza di gesti normali e la tenacia di chi non si rassegna.
Credit foto: Comunità Papa Giovanni XXIII
L'articolo Quarant’anni da missionaria contro la fame nel mondo mi hanno insegnato che commuoversi non basta: bisogna muoversi proviene da Vita.it.
Qual è la tua reazione?






