Chi sono gli evangelici trumpiani che predicano nei grandi raduni

Non è solo religione né solo politica, è un ibrido che ha trovato negli evangelici trumpiani ampio consenso. I raduni dei seguaci di Donald Trump brandizzati Make America Great Again si somigliano un po’ tutti: testimonianze intime, momenti di commozione collettiva e continui appelli all’azione. Anche nelle commemorazioni funebri. Non stupisce che molti a Glendale, Arizona, abbiano definito Charlie Kirk «un martire» e «un uomo eterno» colpevole di voler salvare i giovani. C’è anche chi l’ha paragonato a Gesù, morto sulla croce a trentatré anni. L’accostamento tra termini politici e religiosi potrebbe sembrare bizzarro, o casuale, ma non lo è. Si tratta di una strategia comunicativa collaudata, dove il linguaggio simbolico – mutuato dalla tradizione cristiana – riorganizza i sentimenti delle persone, legittimandone le reazioni.
Un lungo approfondimento del Guardian evidenzia come la deriva presa dalla cerimonia in onore dell’alleato di Donald Trump ucciso in un campus dello Utah non sia stata poi così distante da grande un raduno evangelico. Non è solo di una somiglianza estetica: è la riproposizione di un arsenale comunicativo che, dai revival statunitensi ai maxischermi, traduce la fede in mobilitazione collettiva.
Secondo il New York Times, tale commistione ha portato Tucker Carlson a prendere la parola per abbandonarsi a un vero e proprio sermone sugli immensi lasciti di Kirk (aggiunge che se Kirk fosse stato lì, avrebbe adorato vedere quella folla, lui che era un evangelico). Nella stessa occasione, il vice presidente J.D. Vance ha ammesso d’aver parlato di Gesù nelle ultime settimane che in tutta la vita. Un riferimento che fa pensare se si pensa al parallelismo tra fede, esibizione trumpiana e comizi politici.
Se il funerale di Kirk è sembrato a molti un comizio sotto mentite spoglie, è perché l’evangelicalismo si radica nella tradizione cristiana che riduce al minimo gli intermediari. Nato come costola del cristianesimo protestante, non si presenta come una Chiesa unitaria ma come una costellazione di comunità che condividono alcuni principi cardine: la rinascita spirituale, la centralità assoluta della Bibbia e l’obbligo di evangelizzare, cioè portare la fede all’esterno. In questo senso è il contrario del cattolicesimo: niente sacramenti come filtro, niente sacerdoti come mediatori, solo l’individuo e Dio, in rapporto diretto. È una teologia che negli Stati Uniti ha trovato terreno fertile, perché risuona con il mito nazionale dell’autonomia e dell’autodeterminazione.
Ieri, David Brooks osservava sul New York Times come molti dei partecipanti alla commemorazione non avessero ben chiaro il confine tra fede e politica; l’alternarsi di preghiere e invettive fa riflettere. Nel suo discorso, Stephen Miller chiama i suoi nemici «vermi». Ciò mette in luce un problema di fondo; senza una teoria che regoli il rapporto tra la religione e la politica, si rischia di corrompere una per esaltare l’altra. E viceversa.
In un articolo del Guardian si legge che il vero tratto distintivo dell’evangelicalismo è la sua forma. La fede non è vissuta in silenzio, è esibita. Basti pensare ai revival evangelici che hanno segnato la storia statunitense fin dal diciottesimo secolo. Lì, nelle tende da campo e nei villaggi di frontiera, la predicazione collettiva divenne una forma di socializzazione e di costruzione identitaria. È da quelle radici che discende l’attivismo evangelico moderno, fino al Jesus Movement degli anni Sessanta e Settanta, quando la controcultura giovanile si appropriò di un cristianesimo “senza intermediari”. Un fenomeno che, paradossalmente, ha aperto la strada alla destra religiosa che oggi abbraccia Donald Trump: la stessa capacità di parlare ai giovani, di intercettare disillusione e bisogno di comunità, di trasformare la fede in militanza politica.
Il memoriale, in questo contesto, è un esempio di come la spettacolarizzazione della fede s’intrecci stretta con la politica contemporanea. La religione diventa performativa e trova terreno fertile nella strategia di Trump. La capacità di trasformare il culto in consenso politico è parte del modello esibizionista che caratterizza l’evangelicalismo negli Stati Uniti.
Un filo che lega tutto questo è la strategia comunicativa. Il perdono pubblico pronunciato da Erika Kirk, ad esempio, non è solo un gesto intimo di fede, ma un dispositivo retorico che trasfigura il dolore in grazia e crea una narrazione di santità e vittimismo capace di indirizzare la comunità. Nei contesti politicizzati, diventa un segnale morale, che legittima e neutralizza allo stesso tempo. La retorica del martirio, d’altro canto, mobilita le emozioni, favorisce l’identificazione e consegna autorità a chi invoca giustizia o rivalsa.
Da qui è facile capire come la grammatica evangelica si sposi con la propaganda politica. Non c’è molta differenza nel radunare fedeli e richiamare sostenitori. Gli espedienti sono i medesimi. Il grande show, le testimonianze personali e l’inevitabile call-to-action costituiscono il medesimo arsenale comunicativo. L’evoluzione tecnologica ha amplificato questa sovrapposizione, trasformando i predicatori in figure mediatiche capaci di convertire la fede religiosa in risultato politico.
Le crociate di Billy Graham, i televangelisti degli anni Ottanta e i raduni giovanili di Turning Point Usa appartengono tutti a un unico arsenale comunicativo, che oggi viene aggiornato su palchi, in streaming e sui social. Billy Graham, in particolare, è stato il precursore della fusione tra fede e spettacolo, trasformando la predicazione in evento mediatico, riempiendo stadi e arene. Con un linguaggio semplice, Graham ha portato la religione dentro lo spazio pubblico nazionale, costruendo una modalità di mobilitazione emotiva che oggi i comizi Maga replicano e aggiornano. Tra le altre cose, Graham intrattenne rapporti stretti con ogni presidente, da Harry Truman a George W. Bush, consolidando la tradizione americana del legame simbolico tra fede e politica, e fornendo i codici comunicativi che Trump e Turning Point USA usano per trasformare la partecipazione in consenso elettorale.
È in questo intreccio che prende forma la vicinanza con il nazionalismo cristiano, cioè l’idea che l’identità nazionale debba coincidere con quella religiosa. Non tutto il movimento Maga si riconosce in questa prospettiva, ma secondo il Pew Research Center, tra le persone che sostengono il Christian nationalism ci sono anche i più fedeli elettori di Trump. A rendere ancora più forte l’associazione sono i rituali che consolidano la simbiosi tra politica e religione.
Nel 2024, il Prri (Public Religion Research Institute) ha condotto un’indagine per verificare l’adesione al cristianesimo nazionalista negli Stati Uniti. Ciò che si è evinto è che tre americani su dieci si sono qualificati come aderenti al nazionalismo cristiano (dieci per cento) o simpatizzanti (venti per cento), rispetto ai due terzi che si sono qualificati come scettici (trentasette per cento) o contrari (ventinove per cento). Ma la maggioranza dei repubblicani si ritiene aderente (venti per cento) o simpatizzante (trentré per cento) al cristianesimo nazionalista. Ad unirli però c’è un preciso identikit: si affidano a programmi di informazione di estrema destra come Fox News, hanno una bassa istruzione e un’età avanzata. I dati mettono in luce che chi aderisce o simpatizza con il Christian nationalism si considera anche tra i sostenitori più fedeli di leader come Trump. Una sovrapposizione che rende politicamente efficace l’invocazione di simboli religiosi nelle piazze e nei riti civici.
A rafforzare l’associazione intervengono rituali civici e scelte istituzionali di lungo corso. Come la consuetudine che vede i presidenti statunitensi identificarsi come cristiani, i giuramenti sulla Bibbia, le chiose di discorsi con la celebre espressione «God bless America». Ma anche la creazione di strutture istituzionali che celebrano la fede il White House Faith Office, uno strumento di raccordo (o controllo) tra l’attività politica e religiosa.
La commemorazione di Kirk ha reso evidente questa miscela: un rito funebre che ha funzionato come mobilitazione collettiva, oscillando tra predicazione e propaganda, tra lutto e comizio. Qui la religione unisce una comunità nella perdita, ma rischia di trasformare la religione in grottesco mezzo di rivendicazione politica.
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