Il reddito di dignità di Conte è un’illusione senza fondi, e contro le regole Ue

Settembre 4, 2025 - 22:00
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Il reddito di dignità di Conte è un’illusione senza fondi, e contro le regole Ue

Giuseppe Conte ci riprova. Il leader del movimento 5 stelle punta a vincere le elezioni regionali in Toscana, Calabria e Campania riciclando il reddito di cittadinanza. Questa volta però su base locale e con un nome nuovo: reddito di dignità. Una mossa che, in caso di vittoria, gli farà catturare due paffuti piccioni con una fava: le regioni al voto e una chance in più per accreditarsi come leader del campo largo.

Il reddito di dignità a misura utile in teoria, visto che, secondo Istat, in Calabria e Campania le famiglie che vivono sotto la soglia di povertà assoluta sono rispettivamente il 9,1 e 10,2 per cento. Ma come il superbonus insegna, lo sfascio dei conti pubblici è lastricato di buone intenzioni. E la proposta dei Cinquestelle presenta almeno due ostacoli di non poco conto: la sostenibilità finanziaria e la praticabilità legale.

Malgrado ciò i due candidati del campo largo alle elezioni regionali in Calabria e Toscana sembrano voler tirare dritto. Nel duello social contro lo sfidante di Forza Italia Roberto Occhiuto, l’ex presidente Inps Pasquale Tridico spiega come nella programmazione 2021-2027 dei fondi europei destinati alla Calabria siano stati pianificati solo quindici milioni l’annoper il sostegno alle aziende e alle nuove assunzioni, ma non ancora distribuiti. Ci sarebbe dunque ampio margine per realizzare la misura che Tridico intende correlare a «politiche attive, progetti di inclusione e all’autoimprenditorialità».

La proposta di un reddito minimo per le fasce meno abbienti tiene insieme il campo largo anche in Toscana. Una scelta obbligata dato che il candidato del Partito democratico Eugenio Giani è vincolato dall’accordo programmatico in ventitré punti, siglato con Paola Taverna dei Cinquestelle. Anche il governatore Pd, in cerca di una probabile riconferma i prossimi 12 e 13 ottobre, si è prodigato in difesa del reddito di dignità, definendolo: «Un reddito di inserimento lavorativo perché consentirà di dare un bonus a coloro che rimangono privi di qualsiasi forma salariale».

Insomma, gli alleati del campo largo si dicono convinti della bontà di un provvedimento imponente ma finanziabile attraverso il fondo sociale europeo, così da non intaccare le casse pubbliche. Una versione presto smentita da Mario Stella, capogruppo toscano di Forza Italia, il quale prospetta l’impiego di una cifra che va ben oltre i 15 milioni. Secondo le sue stime sarebbero necessari 682 milioni di euro l’anno, a voler dar seguito alle promesse grilline. 

Certo, potrebbe trattarsi del solito rimpallo di numeri e far di conto, tipico della propaganda e contropropaganda che si accende a ridosso delle elezioni ma, al netto di tutti i calcoli, il nocciolo della questione è un altro. Siamo proprio sicuri che si possano usare i fondi europei? Secondo l’economista e docente dell’Università Bocconi Carlo Alberto Carnevale Maffè non è così. Il problema è prima di tutto legale data l’impossibilità, per le norme europee, di impiegare il fondo sociale in sussidi passivi: «Per legge sono da destinarsi a formazione, ricerca, infrastruttura e digitalizzazione. Insomma, servono a creare le premesse per uno sviluppo sostenibile attraverso investimenti, non per fare sussidi in spesa corrente», spiega il professore.

Ma se le risorse comunitarie sono da considerare off-limits, chi pagherà per dare compimento al progetto dei Cinquestelle? Le casse locali al momento risultano insufficienti a finanziare un progetto del genere: «Graverebbero su un conto regionale che non è capiente nel caso della Calabria e nemmeno della Toscana. Inoltre, dovendo configurarsi come una produzione permanente serve un finanziamento di natura durevole. Non si può finanziare un reddito permanente con una misura congiunturale», puntualizza Maffè. Per non parlare dell’effetto distorsivo sul mercato del lavoro. Il reddito di cittadinanza nazionale, presentato come misura di assistenza attiva poiché vincolato all’accettazione di un Patto per il lavoro, si è rivelato, quanto meno, un disincentivo. 

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