Il vandalismo sghignazzante dei proPal pretende di giudicare chi informa davvero

«Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno», invocava Cristo in croce, riferendosi ai suoi persecutori. Senza chiamare in causa entità superne, che non sapessero quello che stavano facendo e dicendo è quanto «spera» il direttore della Stampa, Andrea Malaguti, a proposito della teppaglia che venerdì scorso, abusivamente ammantandosi della bandiera palestinese, e questa volta prendendo spunto dal decreto di espulsione dell’imam Mohamed Shahin, ha vandalizzato la redazione del giornale torinese: lo ha detto l’altra sera, a Otto e mezzo», riprendendo i concetti del suo vibrante editoriale domenicale. Se non sapessero – è il sottinteso – sarebbe almeno un’attenuante. E invece no; perché sperarlo? È proprio perché non sanno quello che dicono e fanno, che non possono essere perdonati.
Ed è proprio per questa stessa ragione che quanto accaduto può essere assunto come paradigma delle molte cose viste e ascoltate in questi mesi di giusta mobilitazione contro l’atrocità perpetrata a Gaza, agitate da una parte non esigua e certamente la più rumorosa dello schieramento propal: la causa palestinese utilizzata come pretesto aggregante di un antagonismo magmatico e indifferenziato, frammisto di buone ragioni e sovrabbondanti luoghi comuni, nozioni approssimative o risolutamente tendenziose recepite come verità apodittiche e rilanciate con trionfale disinteresse per ogni possibile distinguo.
È una desolante impressione di déjà vu, di appiattimento su slogan dissepolti da coltri di decennali stratificazioni ideologiche, e soprattutto un’impressione di vecchio, vecchio, vecchio e sorpassato, tanto più desolante in quanto se ne fanno portatori soprattutto i giovani: a partire dall’irresistibile coazione a manifestare davanti alle sedi della Rai, i cui programmi informativi sono seguiti ormai da pochi, o contro i giornali, che sono letti ancora di meno.
Ecco il punto: la disinformazione. Peggio: la disinformazione che presume di sapere, perché in giro si dice, tanti ripetono, tutti insieme amplificano e fa comodo a una certa costruzione della (ir)realtà. I ragazzi che hanno messo a soqquadro la redazione della Stampa, oggetto di tanto giusta quanto rituale condanna, diciamolo subito, sì, hanno sparso letame, imbrattato i muri con scritte a vernice rossa (senza troppa fantasia: «Free Palestine», «Free Shahin», «Fuck Stampa» – l’inglese è d’obbligo in questi casi), rovesciato sedie, buttato all’aria libri e giornali, ma non hanno toccato i computer, non hanno asportato alcunché. Vandali gentili, tutto sommato onesti. Forse qualcuno li aveva edotti sulla differente gravità penale dei reati; forse, a modo loro, volevano soltanto far vedere di cosa sono capaci, cosa potrebbero fare, se volessero: dare una lezione, un «monito», come ha sentenziato la loro farneticante madonna pellegrina, «perché [il giornale] torni a fare il proprio lavoro».
Ma quale sarebbe il lavoro omesso? I video dell’irruzione li abbiamo visti tutti: sono sui siti dei quotidiani, sui social, in televisione. Li avete guardati quei ragazzi a stento ventenni, che sfilavano cantando sguaiatamente, con tono più divertito che arrembante, da impuniti cazzoni che vanno a fare casino, «Giornalista ti uccido», «Giornalista sei il primo della lista», con variante epitetica «Giornalista terrorista sei il primo della lista»? Nessuno si è fatto male, grazie ad Allah, anche perché la redazione era deserta per lo sciopero; però, «giornalista terrorista»? Giornalisti complici del fermo dell’imam? Ma lo sanno quel che dicono?
No, non lo sanno – e per questo sono imperdonabili, perché lo dicono. Se avessero mai letto la Stampa, saprebbero che nulla è stato scritto contro codesto Shahin, anche quando forse sarebbe stato il caso. Anzi: quando lo scorso 7 ottobre, anniversario dell’eccidio compiuto da Hamas, la Questura di Torino aveva opportunamente vietato una manifestazione propal che si sarebbe inevitabilmente risolta in uno sfregio alle vittime di quel massacro, la Stampa (otto ottobre) aveva correttamente riportato le ragionevoli parole dello stesso imam che, pur esprimendo il suo disaccordo, esortava a rispettare «le autorità e le leggi».
E certo, quando due giorni dopo, durante una nuova manifestazione in piazza Castello per festeggiare la tregua a Gaza, ancora Shahin aveva contraddetto la propria iniziale moderazione sostenendo che «quello che è successo il 7 ottobre non è una violazione, non è una violenza», la Stampa (11 ottobre) non aveva potuto fare a meno di riportare quelle surreali dichiarazioni, con le polemiche che ne erano seguite ma anche, come è deontologicamente corretto, andando a sentire le ragioni dell’imam. Che aveva ribadito: «Il 7 ottobre non lo vedo come un’azione, ma come una reazione. Il popolo palestinese ha il diritto di difendersi».
Non sappiamo se siano bastate queste parole a indurre il ministro dell’Interno, un mese e mezzo dopo, a decretare l’espulsione di Shahin dal territorio nazionale per «motivi di sicurezza dello Stato e di prevenzione del terrorismo». Sta di fatto che queste parole le ha dette lui, non le ha inventate la Stampa, la quale peraltro, nello stesso articolo (venticinque novembre) che dava notizia del provvedimento del ministro Matteo Piantedosi, riportava anche diverse testimonianze in favore dell’interessato. E il giorno dopo dedicava mezza pagina di cronaca al raduno di solidarietà di comuni cittadini e alle prese di posizione di soggetti rispettabili come la comunità valdese e di diversi esponenti del campo largo e dei sindacati, tutti concordi nel ricordare che «la libertà di opinione non è un reato» e nel testimoniare che «Shahin è una persona onesta» che ha sempre lavorato per l’integrazione e la pacifica convivenza. Ancora un giorno, e questa volta erano diverse realtà cattoliche cittadine a farsi sentire: «È la sua un’opera di dialogo e solidarietà» era il titolo su un’altra mezza pagina di cronaca.
Sarà: forse, dopo vent’anni in Italia, Shahin ha ancora qualche problema a farsi intendere; del resto neanche Dan Peterson, in Italia da una vita, ha ancora imparato. E la credibilità di chi è intervenuto in difesa dell’imam può indubbiamente suggerire qualche più pacata riconsiderazione su tutta la vicenda. Sta di fatto che questo è quanto hanno pubblicato i «giornalisti terroristi» della Stampa, tra i grandi quotidiani, peraltro quello che ha dedicato più spazio e più empatia alla tragedia del popolo gazawi.
Non solo: in un convegno organizzato lo scorso ottobre a Roma dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, dove a un certo punto ogni legittima critica al governo di Israele stava venendo ribaltata in un’espressione di antisemitismo, il direttore Andrea Malaguti era stato il più fermo nell’opporsi a questa narrazione capziosa, in un appassionato intervento in difesa della funzione del giornalismo, concluso con queste parole che gli allegri imbecilli devastatori farebbero bene ad ascoltare (non è difficile, dai, il video si trova su vari siti, per esempio qui): «Si sente dire continuamente: “Sì, ma sotto quell’ospedale c’era Hamas”. La risposta che viene da dare: se in questa sala oggi ci fosse qualcuno di Hamas e ci facessero fuori tutti, vi sembrerebbe una cosa normale? Una cosa accettabile?».
Certo però – e sempre nell’ottica della funzione (il minimo sindacale) del giornalismo, che è di dare le notizie – la Stampa ha anche la «colpa» di avere sempre e puntualmente dato conto delle indagini della magistratura a carico dell’area antagonista, e segnatamente di alcuni (non ventenni) membri di Askatasuna che sarebbero dietro alle manifestazioni più violente, e che trovano facile presa nei ragazzi più sprovveduti e più desiderosi di protagonismo. Forse andava taciuto? Sarebbe questo il lavoro giornalistico auspicato dalla relatrice speciale dell’Onu sui territori palestinesi occupati? La Stampa non lo ha fatto, e così è caduta vittima di un’azione squadristica che, danneggiamenti a parte, sarebbe farsesca se non fosse preoccupante. Perché, come ha detto Marx, nella storia le tragedie si ripetono in farsa. Ma a lungo andare, dalla farsa possono rinascere tragedie.
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