Riconoscere i difetti per scegliere meglio il vino

Un vino difettoso non è semplicemente un vino andato a male. È un racconto interrotto, un equilibrio imperfetto tra la vigna, la cantina e la bottiglia. Capire i difetti non serve per fare i sommelier da tavolo, ma per riconoscere quanto il vino sia una materia viva, sensibile e mutevole come chi lo crea e chi lo beve.
Il più discusso è il Brett, abbreviazione di Brettanomyces: un lievito che, se sfugge al controllo, regala sentori di stalla, cuoio o cerotto. A qualcuno piace – in dosi minime può aggiungere complessità – ma se prende il sopravvento copre tutto il resto. È il vino che parla con voce roca, come dopo una notte lunga.
Poi c’è l’ossidazione, colpa di troppo ossigeno. Nei bianchi si manifesta con un colore ambrato e profumi di mela cotta o frutta secca; nei rossi con un tono mattone e un palato stanco. All’opposto, la riduzione nasce quando qualcosa manca, pulizia sull’uva, nutrienti per i lieviti, ossigeno in molti casi: il vino sa di fiammifero spento, gomma cavolo cotto o aglio. A volte basta lasciarlo respirare, altre volte non c’è rimedio.
I vini cotti o stanchi o maderizzati sono quelli che hanno sofferto il caldo: note di frutta al forno, noci e caramello che spengono la freschezza. Simile, ma più naturale, è il vino “che ha scollinato” semplicemente oltre il suo momento migliore: il frutto si spegne, la struttura si allenta, e la vita scivola via dal bicchiere.
L’acidità volatile, invece, è una questione di acido acetico. Quando supera la soglia, il vino odora di aceto, lacca o smalto. A volte è una scelta di stile – un tocco che dà slancio – ma è un equilibrio sottile, e basta poco per perderlo.
E poi c’è il difetto più temuto: il vino “tappato”, contaminato dal TCA, e non solo: un composto che trae origine nelle sugherete per i tappi o nelle botti mal conservate o ancora da contaminazioni ambientali. L’odore è inequivocabile: muffa, giornale bagnato, cantina umida, frutto spento o assente. In bocca rimane un gusto secco, spesso accompagnato da un sentore di muffa. È l’unico difetto che non perdona, perché non lascia scampo nemmeno ai grandi vini.
Capirli, riconoscerli, nominarli. È un modo per avvicinarsi al vino con rispetto, e per accettare che anche l’imperfezione abbia un linguaggio. In fondo, ogni bottiglia è una storia fragile: basta un soffio d’aria in più, un grado in meno, e cambia tutto il finale.
Come riconoscere un vino difettoso
- Guarda il colore
È il primo segnale. Un bianco che vira all’ambrato o un rosso troppo aranciato possono indicare ossidazione o calore eccessivo. Anche la torbidità non voluta – nei vini non filtrati o naturali – è un campanello d’allarme. Attenzione però, non è sempre detto, quindi informiamoci bene da chi ne sa più di noi, prima di giudicare.
- Annusa senza fretta.
L’olfatto è il sensore più preciso. Odori di aceto, smalto, cartone bagnato o stalla sono segnali inequivocabili di deviazioni: acido acetico, TCA o Brettanomyces. Se invece ricorda fiammiferi spenti o uova, si tratta di riduzione.
- Assaggia con attenzione
Un vino difettoso manca di energia. È piatto, corto, privo di freschezza o dominato da note sgradevoli che coprono il frutto. Se il palato è amaro, metallico, secco o eccessivamente acetico, qualcosa non va.
- Fidati della memoria
Il gusto non mente: se un vino che conosci non si comporta come dovrebbe, probabilmente è cambiato in bottiglia. Conservazione e temperatura di servizio possono accentuare difetti già presenti o purtroppo crearne di nuovi.
- Accetta l’imperfezione (quando serve)
Alcune note “fuori tono” possono essere parte dello stile: un tocco di volatile, un accenno di ossidazione in un orange wine. La chiave è la misura. Quando il difetto diventa protagonista, il vino ha perso la sua voce.
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