L’integrazione a più velocità dei Balcani occidentali nell’Ue

Il tour balcanico di Ursula von der Leyen si è chiuso il 15 ottobre a Skopje, ultima tappa di un viaggio che ogni anno riporta l’attenzione dell’Unione europea sui Balcani occidentali. La Presidente della Commissione ha attraversato Albania, Montenegro, Bosnia Erzegovina, Serbia, Kosovo e Macedonia del Nord per ribadire che l’allargamento resta una priorità strategica, ma anche per ricordare che i progressi dei sei Paesi candidati restano diseguali.
Da Bruxelles il messaggio è chiaro: l’Unione non può permettersi di lasciare indietro una regione che da vent’anni attende nella “sala d’aspetto” europea. Ma l’integrazione resta ancora un progetto a geometria variabile. La Serbia, il Paese più grande e potenzialmente più influente della regione, è quello che negli ultimi anni ha fatto meno progressi. Al contrario, le derive autoritarie del Presidente Aleksandar Vučić hanno rallentato il percorso di adesione. Von der Leyen ha invitato Belgrado a «raddoppiare gli sforzi» dopo quindici anni di negoziati quasi immobili e ha condannato la repressione delle proteste antigovernative. Bruxelles cerca ancora un equilibrio: non vuole isolare ulteriormente la Serbia, ma la pazienza verso un governo sempre più autoritario e vicino a Mosca sembra agli sgoccioli.
Molto diversa l’atmosfera in Montenegro, che si è guadagnato i riflettori come frontrunner dell’allargamento. «On good track» per entrare nell’Unione entro il 2028, ha detto von der Leyen a Tivat. Il piccolo Paese adriatico, spesso trascurato dai media, ha già aperto tutti i trentatré capitoli negoziali e ne ha chiusi provvisoriamente sette. Il primo ministro Milojko Spajić punta a completare il percorso entro il 2026, mantenendo un ritmo definito da Bruxelles «ambizioso ma realistico».
«Dalla mia visita l’anno scorso avete chiuso quattro capitoli, e siete sulla buona strada per chiuderne altri cinque quest’anno. Una velocità sorprendente», ha commentato l’inquilina di Palazzo Berlaymont. Dietro questi progressi c’è una strategia coerente e poco ideologica. Fin dall’inizio dei negoziati Podgorica ha scelto l’integrazione come priorità nazionale, sostenuta da un consenso politico abbastanza diffuso e da una relativa stabilità istituzionale che le ha consentito di proseguire le riforme con continuità.
Ha adottato l’euro, aderito di recente all’area unica dei pagamenti Sepa, avviato l’abolizione del roaming con i Paesi dell’Unione e si è pienamente allineato alla politica estera e di sicurezza europea, soprattutto nei confronti della Russia. Recentemente, inoltre, un contingente montenegrino ha partecipato alla missione europea di addestramento in Ucraina. Una scelta costosa – il turismo russo rappresentava una quota importante del Pil – ma decisiva per accreditarsi come partner affidabile.
Restano tuttavia alcune aree dove saranno necessari ulteriori miglioramenti: dallo Stato di diritto (capitoli 23 e 24, probabilmente i più delicati) al contrasto alla corruzione, dalla trasparenza negli appalti pubblici alla solidità delle istituzioni democratiche. Anche l’economia, pur stabile, resta troppo dipendente dal turismo e da un debito pubblico elevato.
A rafforzare il percorso di avvicinamento c’è l’iniziativa “Smart Growth for a Green Future”, promossa dalla Delegazione Ue e presentata durante l’incontro di Tivat. Si tratta di un programma di investimenti verdi e digitali per sostenere imprese e amministrazioni locali nella transizione ecologica. L’obiettivo è posizionare il Montenegro come destinazione chiave per gli investimenti nei Balcani occidentali, guidando lo sviluppo nelle energie rinnovabili, nell’agroalimentare sostenibile, nel turismo e nell’innovazione digitale.
Bruxelles considera il Paese non solo un candidato politico, ma un laboratorio di integrazione economica e ambientale. La prova che l’allargamento può tradursi in sviluppo concreto. Il contesto geopolitico spiega il resto. Dopo l’invasione russa dell’Ucraina l’allargamento è tornato una priorità strategica e l’Unione non vuole lasciare vuoti nei Balcani che possano essere riempiti da Mosca o da Pechino. Alla volontà di Bruxelles però devono affiancarsi gli sforzi dei Paesi candidati.
In questo senso il Montenegro è diventato un caso pilota, riuscendo a dimostrare che le riforme sono fattibili quando c’è stabilità e volontà politica. Nello scacchiere internazionale «ogni nazione europea deve scegliere da che parte stare», ha ricordato von der Leyen. Podgorica, a differenza di Belgrado, lo ha fatto chiaramente. Nel confronto regionale, il vantaggio montenegrino è netto. La Macedonia del Nord e l’Albania sono ben avviate ma più indietro rispetto al Paese guidato da Spajić, la Bosnia-Herzegovina è prigioniera di un sistema istituzionale bloccato, il Kosovo non è ancora candidato ufficiale e la Serbia appare sempre più distante.
Il prossimo banco di prova ci sarà il 4 novembre, con la pubblicazione delle relazioni annuali sull’allargamento. Se Podgorica manterrà il ritmo annunciato dal proprio governo, tra poco più di due anni potrebbe diventare il primo nuovo Stato membro dal 2013, quando entrò la Croazia. Sarebbe un segnale politico forte, dentro e fuori i Balcani: la prova che Bruxelles è ancora attrattiva e che la politica di allargamento dell’Unione europea sta lentamente uscendo dal pantano in cui è finita da qualche anno. Sarebbe una bella «storia di perseveranza europea», come l’ha definita von der Leyen.
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