Quando il Fisco può usare presunzioni semplici per ricostruire i redditi?

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Con l’ordinanza n. 27118 del 9 ottobre 2025 (udienza del 23 settembre 2025), la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul tema dell’accertamento analitico-induttivo dei redditi d’impresa e dei limiti entro cui l’Amministrazione finanziaria può fondare la propria pretesa su presunzioni semplici.
Gli Ermellini, nella pronuncia richiamata, hanno offerto chiarimenti circa l’uso delle presunzioni e l’onere della prova.
La vicenda: le fatture “cartiere” e l’accertamento induttivo
Il caso nasce da un accertamento fiscale relativo all’anno d’imposta 2018 nei confronti della società G.T.E. Srl, poi posta in liquidazione. A seguito di una verifica della Guardia di Finanza, l’Agenzia delle Entrate aveva rilevato numerose operazioni soggettivamente inesistenti, cioè fatture emesse da imprese “cartiere”, prive di una reale attività e utilizzate per creare una contabilità apparente.
L’Ufficio, ritenendo inattendibili le scritture contabili della società, aveva effettuato un accertamento analitico-induttivo ai sensi degli artt. 39 del D.P.R. 600/1973 e 54 del D.P.R. 633/1972.
In particolare, la prima norma dispone che “se l’incompletezza, la falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati risulta dall’ispezione delle scritture contabili e dalle altre verifiche, ovvero dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti e documenti relativi all’impresa, nonché dei dati e delle notizie raccolti dall’ufficio nei modi previsti, l’esistenza di attività non dichiarate o la inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti.”
La seconda norma richiamata invece dispone che, in materia di IVA, “Le omissioni e le false o inesatte indicazioni possono essere indirettamente desunte da tali risultanze, dati e notizie a norma dell’art. 53 o anche sulla base di presunzioni semplici, purche’ queste siano gravi, precise e concordanti.”
Lo svolgimento del caso
L’Agenzia delle entrate ha dunque rideterminato i redditi imponibili ai fini IRES, IRAP e IVA e ipotizzando che la contribuente avesse conseguito proventi illeciti pari al 20% del fatturato fittizio, per un totale di circa 2,9 milioni di euro non contabilizzati.
La Corte di giustizia tributaria (CGT) di primo grado di Napoli aveva parzialmente accolto il ricorso della società, riducendo la pretesa erariale. In appello, la Corte di Giustizia Tributaria della Campania aveva censurato il metodo di calcolo adottato dal Fisco, in quanto basato su una “presunzione su presunzione” (praesumptum de praesumpto). Secondo la Corte regionale, l’Ufficio aveva ipotizzato prima la percezione di compensi illeciti e poi, su tale base, ne aveva stimato l’entità in misura percentuale.
L’Agenzia delle Entrate ha impugnato la sentenza in Cassazione, lamentando un’erronea applicazione dei principi in tema di presunzioni e onere della prova, oltre a vizi di motivazione e omessa pronuncia su alcuni punti decisivi.
Le presunzioni bastano, anche una sola
La Suprema Corte ha accolto i primi tre motivi di ricorso dell’Agenzia, cassando la sentenza della Corte campana e rinviando la causa per un nuovo esame.
Nel ricostruire il quadro normativo e giurisprudenziale, la Cassazione ha ribadito un principio ormai consolidato, secondo cui in presenza di scritture contabili inattendibili, incomplete o false, il Fisco può legittimamente ricorrere all’accertamento analitico-induttivo, integrando le lacune con presunzioni semplici purché gravi, precise e concordanti, ai sensi dell’art. 2729 c.c.
Un passaggio particolarmente rilevante dell’ordinanza afferma che non è necessario che le presunzioni siano più d’una, ma basta anche un solo elemento presuntivo, purché dotato dei requisiti richiesti, per fondare l’accertamento e spostare l’onere della prova sul contribuente. Tale orientamento, già espresso in precedenti pronunce (Cass. nn. 30985/2021, 22184/2020, 33604/2019), viene dunque confermato.
La Corte ha censurato la decisione della CGT campana per non aver valutato in modo adeguato gli elementi probatori addotti dall’Agenzia, tra cui la presenza di fatture per operazioni inesistenti, la falsità e l’incompletezza delle scritture contabili, l’invio di dichiarazioni IVA incomplete e il rinvio a giudizio del legale rappresentante della società per il reato di dichiarazione infedele (art. 4, d.lgs. 74/2000).
Tutti questi elementi, osserva la Cassazione, avrebbero dovuto indurre i giudici di merito a considerare fondata la ricostruzione dell’Ufficio e a valutare se la società avesse effettivamente assolto il proprio onere probatorio.
Le conclusioni dei giudici
La decisione si conclude con la cassazione con rinvio alla Corte di Giustizia Tributaria della Campania, in diversa composizione, affinché riesamini la controversia attenendosi al principio di diritto così formulato: “In tema di accertamento analitico-induttivo, a fronte dell’incompletezza, falsità o inesattezza dei dati contenuti nelle scritture contabili, l’Amministrazione finanziaria può completare le lacune riscontrate utilizzando, ai fini della dimostrazione dell’esistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati, anche presunzioni semplici aventi i requisiti di cui all’art. 2729 c.c., con la conseguenza che l’onere della prova si sposta sul contribuente.”
Da questa breve disamina, si evince chiaramente che quando la contabilità è inattendibile, la presunzione dell’Ufficio è di per sé sufficiente a spostare l’onere della prova sul contribuente, anche se unica, purché dotata di gravità, precisione e concordanza.
Per le imprese, ciò si traduce nella necessità di tenere una contabilità formalmente e sostanzialmente corretta, oltre che disporre sempre di prove solide e concrete, idonee a scardinare la presunzione dell’Amministrazione.
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