Meloni fa una legge di bilancio che non scontenta nessuno, ma non serve a niente

Ottobre 18, 2025 - 16:00
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Meloni fa una legge di bilancio che non scontenta nessuno, ma non serve a niente

La fotografia del governo che ieri ha illustrato la legge di Bilancio 2026 al momento di scattarla pareva già ingiallita. È una fredda manovrina (diciotto miliardi di euro) che ricorda quelle di tanti anni fa su cui i cronisti avevano poco da scrivere: le famose Finanziarie degli anni Ottanta, qualche soldino qui qualche altro là, ma niente di sconvolgente. Niente di strutturale, come si dice. Non cambia nulla.

Giorgia Meloni, scesa in sala stampa dopo secoli, ha detto due cosette e se n’è andata lasciando la parola a Giancarlo Giorgetti («In bocca al lupo», la battutina) per l’esposizione tecnica. La parola magica è “equilibrio”: il che risponde al vero, i conti sono in ordine e va riconosciuto. Ottimo. Anche se è difficile non stare in equilibrio se si sta fermi. Non ci sono infatti misure espansive, e questo non lo dice un marxista, ma il presidente di Confindustria Emanuele Orsini, che ha lamentato l’assenza di misure per la crescita. Per lui la manovra non interviene con forza su settori chiave, né dà segnali coerenti di sviluppo di lungo periodo, non interviene cioè sulle ragioni a monte della stagnazione della produzione industriale che perdura ormai da anni. Sulle banche ha vinto Antonio Tajani, niente tassa sugli extraprofitti ma un marchingegno per avere qualche soldo senza che il sistema bancario-assicurativo si faccia male.

Da parte sua la Cgil (la Cisl ormai fiancheggia il governo, la Uil è sparita) segnala due problemi su tutti: il famoso fiscal drag, cioè critica che la manovra non restituisca appieno quanto “perso” per effetto del cosiddetto drenaggio fiscale; e i bassissimi, quasi offensivi, aumenti per i redditi più bassi: si calcola una incremento mensile di quaranta euro al mese per i redditi medio-bassi e per chi percepisce un reddito inferiore nemmeno quelli. Le pensioni minime aumentano di venti euro al mese.

In questo contesto colpisce il grido d’allarme di Sergio Mattarella sui salari insufficienti. Proprio nel giorno della presentazione della legge di bilancio, il Capo dello Stato ha sottolineato che mentre «risultati positivi sono stati conseguiti dagli azionisti e robusti premi hanno riguardato taluni fra i dirigenti», per non parlare «dei supermanager», che godono «di remunerazioni centinaia, o persino migliaia di volte superiori a quelle di dipendenti delle imprese», dall’altra parte ha messo sotto accusa i contratti pirata che creano «vere e proprie forme di dumping contrattuale che hanno l’effetto di ridurre i diritti e le tutele dei lavoratori, di abbassare i livelli salariali, di provocare concorrenza sleale fra imprese».

Viene da pensare alla famosa frase di Adriano Olivetti – «Nessun dirigente, neanche il più alto in grado, deve guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario minimo» – per comprendere quanto ogni anno la forbice si allarghi.

Inutile vantarsi del (relativo) aumento dell’occupazione, come fa la presidente del Consiglio, perché – ha detto ancora Mattarella – «l’occupazione, come recita l’articolo 36 della Costituzione, deve assicurare ad ogni lavoratore “una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”».

Senza forzare il pensiero del Presidente della Repubblica, non si può fare a meno di notare un implicito richiamo alla politica, e segnatamente al governo, a fare di più. Un controcanto, quello di Mattarella, che si inquadra in una particolare situazione di solitudine, come scrivono i quirinalisti, quasi di disincanto sia rispetto a un governo che non lo soddisfa sia a un’opposizione che lo lascia del tutto freddo e con la quale ha scarsa consuetudine. E non certo per scelta sua.

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Redazione Redazione Eventi e News