C’è un limite a tutto, anche al far parte dello stesso governo e litigare di continuo

Esiste un limite tollerabile alla diversità di posizioni, spesso spinta fino all’incompatibilità, all’interno di una sola maggioranza e quindi di un solo governo, rispetto ai contenuti del programma presentato al Capo dello Stato nelle consultazioni e approvato con il conseguente voto di fiducia delle Camere? Questa domanda si pongono da tempo quanti – fedeli interpreti dello spirito della Costituzione – ritengono che la coerenza e la coesione di una maggioranza che si propone al vaglio delle consultazioni con il capo dello Stato non debbano essere una finzione permanente, che dia luogo alla prescritta mozione motivata sulla quale chiedere la fiducia di entrambe le Camere, per dissolversi senza ritegno (e di continuo) dal momento immediatamente successivo a quel voto?
E ancora, è accettabile, anche e soprattutto da chi è costituzionalmente preposto a verificare che la motivazione della mozione che prelude alla formazione del rapporto di fiducia, che quella stessa coesione, quella stessa coerenza, non siano solamente la beffa di un attimo fuggente, costantemente e platealmente contraddetto, fino al prossimo attimo che pretende di fissare davanti alle Camere una compattezza che non esiste nella realtà? Anche quando emerga che quella compattezza, addirittura, potrebbe non essere mai esistita?
Come fu, ad esempio, solo pochi anni fa, quando nacque il governo cosiddetto gialloverde, formato da due formazioni capaci di oscillare tra la apparente compattezza di un contratto di governo solo nominalmente modellato sull’estenuante elaborazione del modello germanico (mesi e mesi di logoranti trattative) e il semplice, innaturale impegno a sostenere tutti i punti di un programma composto non sulla base di una convergenza laboriosamente raggiunta, quanto sulla equa e spudorata spartizione degli stessi al di là della minima compatibilità di merito? Anche in presenza del reciproco, plateale mantenimento della massima distanza possibile, la stessa di quando erano anche nominalmente su fronti opposti?
È giusto e doveroso parlarne oggi, una volta entrati visibilmente nella fase in cui è massima la divergenza tra la compattezza che sta alla base di un accordo di governo e quella che si proclama con arroganza fino all’attimo che precede il voto che verrà. Difficile, di più, impossibile non parlarne oggi, quando le divergenze celate e camuffate spingono gli alleati dello stesso governo a ringhiarsi addosso, non solo sulle ordinarie divergenze programmatiche di una coalizione di partiti diversi, ma addirittura sulle ordinarie alleanze internazionali e, senza vergogna, tra l’aggressore e l’aggredito di una guerra senza limiti alla ferocia (meglio, anzi peggio, di più guerre senza gli stessi limiti), in attesa dell’avvento del momentaneo candore unitario che impudicamente le nasconda?
La risposta, una risposta dirimente e davvero patriottica, arriva ancora non dalla auspicata resipiscenza di una coalizione al governo (e pure, a quel che si intravede, nemmeno da quella di una eventuale, confusa coalizione alternativa), ma ancora una volta da chi rappresenta l’unità nazionale, nei fatti e non a chiacchiere: non solo quella che una maggioranza di governo, per di più inesistente, che almeno sui temi della difesa nazionale e delle relazioni internazionali, dovrebbe rappresentare l’intera nazione. L’ha data il Capo dello Stato, con la convocazione tempestiva e solenne del Consiglio supremo di difesa, portato ad assumere una posizione unitaria che dissolva la miseria delle dirompenti beghe di governo, esibite spudoratamente tranne quando si richiede il minimo di sincerità.
In una lezione concreta di unità nazionale, peraltro preannunciata da una inusuale ma rassicurante, sequela di prese di posizioni esemplari in tutte le occasioni possibili, dentro e fuori i confini nazionali. Apprezzate dentro e fuori i confini nazionali. Facendo strame necessario di grottesche e anticostituzionali tesi istituzionali, secondo le quali la politica estera del governo sarebbe compito esclusivo del presidente del Consiglio e del ministro degli Esteri. E di conseguenza, ad esempio, la competenza sul ponte sullo Stretto coinvolgerebbe, con il capo del Governo, il solo ministro delle Infrastrutture.
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