La nuova fase della guerra commerciale tra America e Cina, e il rischio di un collasso globale

Ottobre 17, 2025 - 09:30
 0
La nuova fase della guerra commerciale tra America e Cina, e il rischio di un collasso globale

Con l’amministrazione Trump le polemiche e i litigi diplomatici si ripetono con insospettabile ciclicità. Dopo aver fatto da regista per la pace in Medio Oriente – sulla cui tenuta è bene sospendere il giudizio –, in settimana Donald Trump è tornato a parlare di economia, dazi e guerra commerciale con la Cina. Su Truth Social ha promesso «dazi del cento per cento su ogni prodotto cinese». Potrebbe aver fatto copia e incolla da un post di aprile o di luglio. Una storia che va avanti così da quando è tornato alla Casa Bianca, sempre uguale. O quasi. Perché poche ore dopo Trump ha cambiato registro: «Non bisogna preoccuparsi della Cina, andrà tutto bene! Gli Stati Uniti vogliono aiutare la Cina, non danneggiarla!!!». In quarantotto ore, la politica commerciale americana è passata dalla guerra totale all’abbraccio strategico. E i mercati, dopo un tonfo e un rimbalzo, hanno ricordato l’acronimo “Taco”: Trump always chickens out, alla fine il presidente se la fa sotto.

«I messaggi contrastanti sembrano aver aperto una finestra sul tira e molla di Trump», ha scritto il New York Times. Da un lato c’è l’istinto populista da campagna elettorale, il bisogno ontologico di parlare alla pancia dell’America manifatturiera, l’idea che i dazi siano una prova di forza patriottica. Dall’altro, la consapevolezza – se non di Trump, almeno di qualcuno nella sua cerchia – che la Cina sia un partner commerciale essenziale e un avversario che conviene maneggiare con cautela.

Le contraddizioni di suoi annunci si riflettono nelle reazioni dei mercati. Quando Trump minaccia, le borse cadono; quando fa marcia indietro, risalgono. È una diplomazia da montagne russe, in cui ogni tweet o post su Truth Social muove miliardi di dollari e qualche punto nei sondaggi del Midwest, fondamentale in vista delle elezioni di midterm di novembre 2026.

In questo caso la giravolta è arrivata nel momento più delicato della nuova guerra commerciale tra Washington e Pechino, un conflitto che non riguarda più solo prodotti di consumo, chip e semiconduttori, ma arriva a strutture e infrastrutture, ai porti, alle navi, al mare.

Tutto è cominciato con le terre rare. Giovedì scorso Pechino ha imposto nuove restrizioni all’esportazione di questi minerali strategici, citando ragioni di sicurezza nazionale. È una mossa che vale più di qualsiasi minaccia a parole, perché la Cina produce oltre il novanta per cento delle terre rare lavorate al mondo e controlla circa il settanta per cento delle attività minerarie globali. Come ha ricordato il Guardian, «la stretta cinese sulla filiera globale delle terre rare è stata un punto di svolta nella guerra commerciale». Perché si tratta di elementi indispensabili per produrre chip, batterie, motori elettrici, armi di precisione e ogni genere di tecnologia avanzata. Per questo Trump ha risposto definendo la decisione cinese «sinistra e ostile», annunciando dazi generalizzati del cento per cento su tutte le importazioni cinesi. In pratica, una mossa che avrebbe potuto far saltare le catene di approvvigionamento globali. Eppure, come spesso accade, alla furia ha fatto seguito la carezza. In poche ore, la Casa Bianca ha provato a correggere il tiro con il messaggio di ammorbidimento – strappo ricucito a metà: i mercati asiatici erano già crollati e le imprese americane avevano già messo in pausa ordini e contratti.

Secondo gli analisti dell’Atlantic Council, Trump avrebbe interpretato le nuove restrizioni cinesi come un affronto: Pechino avrebbe violato una tregua temporanea concordata in primavera. Ma lo stesso team della Casa Bianca – dal Segretario del Tesoro Scott Bessent al vicepresidente J.D. Vance – continua a predicare calma, perché a fine ottobre dovrebbe esserci un bilaterale con Xi Jinping in Corea del Sud. E come sempre, anche stavolta, Trump vorrebbe presentarsi come il gran maestro delle trattative.

Nel frattempo, scrive la Bbc, la guerra dei dazi si è spostata dalla terraferma al mare. Da martedì 14 ottobre, Stati Uniti e Cina hanno iniziato ad applicare nuove tasse portuali alle rispettive navi. Washington sostiene che le imposte servano a «sostenere la cantieristica navale americana» e a ridurre la dipendenza da compagnie cinesi. Pechino le considera misure «discriminatorie» e ha risposto imponendo dazi su tutte le navi di proprietà statunitense o battenti bandiera a stelle e strisce. «I dazi raggiungeranno i 1.120 yuan a tonnellata nel 2028», scrive la Bbc, cifre che per una grande nave cargo significano fino a dieci milioni di dollari in tasse portuali.

La conseguenza più ovvia per una politica così aggressiva è un gigantesco effetto domino lungo tutte le catene di approvvigionamento. Le compagnie cinesi ridurranno i viaggi verso gli Stati Uniti, i costi di spedizione saliranno, i container saranno sempre pochi. E, come ha sintetizzato un analista citato da Politico, «potremmo vedere scaffali vuoti durante il periodo natalizio», almeno negli Stati Uniti. Il paradosso è che le misure di Trump pensate per difendere la produzione nazionale finiscono per far salire i prezzi ai consumatori americani: un classico del trumpismo economico, dove la politica commerciale è prima di tutto uno spettacolo di potenza simbolica, con effetti nulli o controproducenti.

I dazi sono l’artiglieria pesante della retorica trumpiana, servono per decantare la rinascita industriale americana, un modo per rassicurare i sindacati, mobilitare l’elettorato operaio, mostrare che “America First” non è solo uno slogan. D’altronde, lo ha scritto in settimana Politico, le nuove misure nascono da una petizione presentata dai sindacati dei lavoratori metalmeccanici e dei lavoratori aerospaziali: la Cina, dicono, ha «danneggiato in modo irreparabile» la cantieristica americana. Trump ha colto l’occasione e applicato tasse portuali, incentivi federali, e un ordine esecutivo per ripristinare il predominio marittimo americano. È una narrazione semplice e perfetta per un’America che, dopo decenni di globalizzazione, vuole credere di poter tornare a costruire tutto da sola. Pur sapendo che si tratta di un obiettivo irrealizzabile: oggi meno dell’un per cento delle navi statunitensi che attraccano in Cina batte bandiera americana. È una guerra simbolica, più utile alla propaganda che alla produzione.

Solo pochi mesi fa, Washington e Pechino sembravano vicini a una tregua. Era stato trovato un compromesso su TikTok, alcuni dazi erano stati ridotti, c’era stata perfino una delegazione di parlamentari americani in visita in Cina per la prima volta dal 2019. Poi è bastato un nuovo pacchetto di controlli sulle esportazioni di chip perché tutto saltasse di nuovo.

L'articolo La nuova fase della guerra commerciale tra America e Cina, e il rischio di un collasso globale proviene da Linkiesta.it.

Qual è la tua reazione?

Mi piace Mi piace 0
Antipatico Antipatico 0
Lo amo Lo amo 0
Comico Comico 0
Furioso Furioso 0
Triste Triste 0
Wow Wow 0
Redazione Redazione Eventi e News