Mattarella, la cultura della clemenza, e la forma più alta di giustizia

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha concesso la grazia a quattro condannati, esercitando la prerogativa che l’articolo 87 della Costituzione gli attribuisce. Un atto che non passa inosservato: perché la grazia non è mai soltanto un provvedimento tecnico, ma un gesto che parla all’intero Paese. In tempi di giustizialismo e di polarizzazione, di slogan che invocano pene esemplari e carcere senza fine, la decisione del Capo dello Stato assume un significato profondo: riaffermare la cultura della clemenza come dimensione essenziale della giustizia.
La grazia non equivale a un’assoluzione, non cancella il reato, non riscrive le sentenze. È, piuttosto, la sospensione simbolica del castigo: un atto di umanità che riconosce la possibilità di cambiamento e di riscatto, pur dentro la responsabilità accertata. Un messaggio che supera il caso individuale e interpella la coscienza collettiva: lo Stato non è solo potere punitivo, ma anche comunità capace di perdono.
La tradizione della clemenza
Fin dalle origini, il potere di concedere la grazia è stato percepito come la forma più alta di autorità. I sovrani assoluti la esercitavano per mostrare magnanimità, i giuristi romani la collegavano alla maestà dell’imperatore, le monarchie moderne la utilizzavano come strumento di legittimazione. Oggi, in una democrazia costituzionale, la grazia sopravvive come prerogativa straordinaria, sottratta all’arbitrio e incardinata in un sistema di garanzie, esercitata con prudenza e sobrietà.
«La forza di uno Stato non si misura nella severità delle pene, ma nella capacità di temperarle con la ragione», scriveva Norberto Bobbio. E già Cesare Beccaria, nel Dei delitti e delle pene, ammoniva che «ogni pena che non derivi dall’assoluta necessità è tirannica». La grazia si colloca dentro questa tradizione illuminista: non cancella la legge, ma ne evita la rigidità quando la giustizia rischia di trasformarsi in vendetta.
Un messaggio alla società
Ogni atto di clemenza è rivolto a un individuo, ma parla all’intera collettività. Ricorda che nessuna condanna deve chiudere per sempre le porte del futuro, che nessun errore umano è irrimediabile. La grazia riafferma la dignità della persona, anche quando ha sbagliato, e restituisce centralità all’idea di pena come percorso di reintegrazione, non come marchio indelebile.
In un tempo in cui il rancore sembra più forte della compassione e la paura più forte della speranza, la grazia diventa bussola morale. Non è un atto di debolezza dello Stato, ma la dimostrazione della sua forza più autentica: quella di saper unire alla fermezza della legge la delicatezza del perdono.
La lezione di Mattarella
Mattarella esercita questa prerogativa con discrezione, lontano dai riflettori, senza mai trasformarla in gesto politico di parte. È la continuità di una tradizione istituzionale che ha visto i suoi predecessori muoversi con la stessa cautela. Carlo Azeglio Ciampi, ad esempio, fece ricorso alla grazia per motivi umanitari legati a condizioni di salute; Giorgio Napolitano la concesse a più riprese, tra cui al militare statunitense Joseph Romano nel contesto del caso Abu Omar, sottolineando il valore di un atto che univa diritto e diplomazia. Anche Oscar Luigi Scalfaro, in momenti complessi della storia repubblicana, usò questo strumento come atto di equilibrio e pacificazione.
Non si tratta mai di scelte semplici, né di gesti automatici: ogni grazia concessa è il frutto di un’attenta valutazione tra giustizia e umanità, tra le esigenze della legge e la necessità di guardare alla persona nella sua interezza. È questa la lezione che Mattarella rinnova oggi: la giustizia non è mai cieca applicazione della norma, ma sempre equilibrio tra legalità e coscienza.
Una scelta di civiltà
Il perdono istituzionale ci interroga sul tipo di comunità che vogliamo costruire: una società chiusa nella logica del castigo eterno, o una comunità capace di credere nel riscatto? Ogni concessione di grazia non è solo una pagina di diritto, ma un gesto di civiltà. È la dimostrazione che la democrazia non vive soltanto di norme e tribunali, ma anche di equilibri delicati, di umanità condivisa, di fiducia nella possibilità che anche chi ha sbagliato possa tornare a essere parte della comunità.
In definitiva, la grazia è la prova che la giustizia, per essere davvero tale, deve saper guardare oltre il reato e oltre la pena. Deve saper vedere la persona. E in questo sguardo, che è insieme giuridico e culturale, sta la sua forza più grande.
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