Schlein non ha creato un vero campo largo, al massimo un piccolo orticello

Elly Schlein passa in questi giorni da una Festa dell’Unità all’altra a celebrare il fatto che il Partito democratico in tutte le regioni in cui si presenterà alle imminenti elezioni si schiererà con le truppe unanimi del campo largo. Lo considera un successo politico, una prova che la testardaggine vince, e che la sua leadership è matura per il gran salto verso Palazzo Chigi.
Invidiando le sue certezze, facciamo due obiezioni. La prima è che non ci sarà in lizza neppure un candidato presidente ascrivibile alla sua maggioranza, e tanto meno al suo cerchio magico. Così come alle elezioni europee, ha dovuto pescare nelle file di coloro che ha battuto alle primarie, i sia pur pavidi e sempre allineati riformisti interni, mollando posizioni chiave in Campania e Calabria a personaggi improbabili come Roberto Fico, o marchiati da un passato di spreco di risorse pubbliche come Pasquale Tridico.
Ma soprattutto c’è un tradimento del concetto stesso di campo largo, se lo vogliamo vedere in positivo. Costretti nostro malgrado a studiare in questi anni la fenomenologia campestre del centrosinistra, avevamo capito che si trattava di uno schieramento alternativo alla destra, che riusciva a mettere insieme tutte le componenti dell’opposizione su una piattaforma condivisa.
Proprio perché doveva essere insidioso, sia per l’elettorato di estrema sinistra sia di centro, il campo non doveva avere nemici al di là del Partito democratico, e doveva avere dalla sua i disturbatori di centro, quelli cioè che guardano Forza Italia ed esclamano che il “re è nudo”, e non si può essere moderati e stare con Roberto Vannacci.
Il campo largo di Elly Schlein non è questo. Manca un Carlo Calenda, inizialmente possibilista ma ormai del tutto schierato contro, e in compenso è arrivata gente come la professoressa Donatella Di Cesare, degna continuatrice della simbologia vincente alle elezioni europee di Ilaria Salis.
È un campo di sinistra-sinistra, che può anche piacere, ma non è un campo largo. Puoi fare la somma delle percentuali, ma se manca Carlo Calenda non è politicamente credibile al centro. Piaccia o non piaccia, il capo di Azione ha occupato uno spazio lasciato libero da Matteo Renzi, in sola coabitazione con i liberaldemocratici di Luigi Marattin, ed è un macigno, anche se vale un tre per cento in crescita.
Ci saranno elettori che, sentendo puzza di bruciato, non scenderanno in campo, e magari saranno decisivi. Stando ai sondaggi, le speranze di Matteo Ricci di recuperare il distacco dal centrodestra dipendono proprio da questa non astensione.
Abbacinati dall’aritmetica, unica loro stella polare nel rapporto con i grillini, pur in tempi in cui si usano gli algoritmi, i seguaci di Elly salutano con piacere estatico il recupero di voti che grazie a loro vedono in crescita Giuseppe Conte, rivelatosi tessitore in Toscana e in Campania, abbandonando finalmente le cattive abitudini a Cinqueselle, ma non i simboli. Paola Taverna ha imposto al povero Eugenio Giani soluzioni programmatiche allucinanti. Persino l’uscita della Toscana dalla Nato. Se si perdono i pezzi si rinuncia a investire sulla politica.
Sarebbe questo il compito vero dei riformisti Partito democratico, vincenti all’ultimo Congresso e ora privati dal poter dire la loro almeno in Direzione Nazionale, almeno dopo la clamorosa sconfitta al referendum di primavera. E quindi non è sorprendente che poi nel Parlamento europeo e nazionale il Partito democratico dimentichi l’utilità dei campi larghi (almeno quelli delle famiglie della sinistra democratica europea) sulle grandi questioni di politica estera, e si immiserisca nella coltivazione di tanti furbastri orticelli.
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