Claudia Cardinale, Robert Redford e la fine della prima generazione pop

Settembre 25, 2025 - 14:00
 0
Claudia Cardinale, Robert Redford e la fine della prima generazione pop

Subito dopo aver letto la notizia della morte di Claudia Cardinale, mi sono messa a guardare la nuova stagione di “Slow Horses”, e a un certo punto la segretaria dice a Gary Oldman che quella sigaretta lo ucciderà, e lui risponde: è per quello che la fumo.

Sono corsa su Google a vedere quanti diavolo di anni abbia Oldman, e mi sono rasserenata perché, benché abbiamo visto parecchi dei nostri poster morire prima del tempo, da David Bowie a Carrie Fisher, abbiamo comunque deciso che l’età in cui è lecito morire sia in questo secolo come minimo quella in cui cominci per 8, ma forse addirittura per 9.

Tuttavia, la morte di Claudia Cardinale a inizio autunno arriva dopo l’estate dello scontento che già avevo descritto in morte di Redford, chiedo scusa se faccio la cafonata di citarmi ma sarebbe peggio fingere d’improvvisare ora il concetto con nuove parole: «C’è anche la possibilità che sia sempre così, d’ora in poi. La prima generazione del pop è nell’età in cui si muore di vecchiaia, e noialtri che quella generazione l’abbiamo consumata in replica o in coda, ereditata dalle sorelle maggiori o dai genitori o dagli amici più grandi, a noialtri ormai tocca la morte d’un poster a settimana».

Ormai muoiono a questo ritmo, e dopo non ce ne saranno altri, spero ne abbiate contezza: il secolo di Claudia Cardinale e Robert Redford, quello in cui esistevano i consumi popolari al punto che il cinema poteva renderti famoso presso ogni ordine di pubblico, ogni ceto sociale, ogni generazione, e farti restare tale per i cinquanta o giù di lì successivi anni, quel secolo lì è finito nel 1997, quand’è uscito l’ultimo film capace di creare due star. S’intitolava “Titanic”, perché a volte le epoche finiscono con titoli simbolici.

Due anni fa Francesco Piccolo ha scritto un libro su una sua fissazione: il periodo in cui Claudia Cardinale cambiava continuamente colore di capelli perché stava lavorando sul set di Federico Fellini e su quello di Luchino Visconti, per due film minori intitolati “8 e 1/2” e “Il Gattopardo”. Sulla copertina di quel libro c’è Claudia Cardinale, e io mi chiedo da che età in giù la Cardinale la conoscano solo perché in libreria, mentre andavano a prendere il nuovo Felicia Kingsley, hanno visto la copertina di Piccolo.

Quel 1963 lì non può tornare, e questo non è un lamento di quelli che sui social poi ti dicono «boomer» e ti accusano di romanticizzare la tua via Gluck: questa è una considerazione sul presente, sulla sua incapacità di produrre cultura autenticamente popolare, sul fatto che è pieno di belle ragazze (cioè: di quel che era la Cardinale) ma è oggi impossibile per una bella ragazza trovarsi nel “Gattopardo” e in “8 e 1/2” (e a me “8 e 1/2” neppure piace), per la semplice ragione che le uniche opere che oggi siano rivolte a tutti sono i fumettoni di supereroi, le non-storie con gli eroi mascherati (nessuno dei quali è prodotto dal cinema italiano, quindi per la bella ragazza dell’Ohio qualche anno da star è più probabile che per la bella ragazza di Molfetta).

Un mese fa ho rivisto “Il Gattopardo”, perché volevo citare in una cosa che stavo scrivendo «Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra», e volevo controllare se Burt Lancaster la dicesse diversa dal libro.

Ho capito che era tutto finito quando ho detto ad alcuni coetanei che avevo rivisto “Il Gattopardo” (solo perché volevo dibattere dell’assurdo velluto a coste che indossa Delon nella prima scena: in un maggio siciliano?), e prima che precisassi hanno tutti creduto che intendessi la serie di Netflix, perché neanche l’eloquente verbo «rivedere» ci salva dal presentismo, perché neanche i vegliardi della mia generazione come prima interpretazione pensano tu stia guardando un film di sessant’anni prima e non l’ultimo consumo deperibile delle piattaforme. (Poi hanno capito, e mi hanno sgridata per aver messo in dubbio le scelte di velluti di Visconti).

Non siamo più abituati a concepire l’esistenza di opere fatte per essere ancora guardate tra sessant’anni, e quindi perché dovremmo occuparci dei prossimi cinquant’anni di carriera di Tizia Famosa che è divenuta tale per qualcosa che dimenticheremo un minuto dopo averlo visto, per qualcosa che sta nel banco frigo e non negli scaffali a lunga conservazione (scusate, dopo l’estate dello scontento è arrivato l’autunno delle metafore sciatte).

Siamo talmente privi di riferimenti, in questo presente bulimico di opere e di carriere, con cento nuovi personaggini famosetti al minuto, con cento nuovi titoli che affollano inutilmente le piattaforme ogni settimana, che persino le idee sui vivi ce le danno i morti. In “Slow Horses” c’è una scena in discoteca, uno vede qualcosa e dice che non è possibile, devono avergli drogato la birra, e io penso a Stefano Benni: ma che notte è, è tutto vero o mi hai messo della roba nel caffè. Citerei volentieri un vivente, se solo i viventi fossero in grado di fornirmi repertorio o immaginario, se solo non avessero facce e parole dimenticabilissime.

Il che però è un bel problema, perché la ventenne divenuta famosa l’altroieri chissà fino a che secolo campa. L’altro giorno il figlio di Sophia Loren ha instagrammato un video della madre che compiva gli anni, già quelle che andavano alle elementari durante la seconda guerra mondiale vivono in un mondo non solo di esistenze lunghissime ma di esistenze in cui non si può mai viver da vecchie: a novantun anni ancora devi soffiare sulle candeline come quando ne avevi diciannove. A questo ritmo, la ventenne che ha un’illusoria carriera nel cinema d’oggi, poi chi la manterrà quando tra tre quarti d’ora il mercato non avrà più spazio per lei che però vivrà centovent’anni? L’Enpals, nel frattempo fallita? O continuerà ad accendersi la telecamera del telefono in faccia promuovendo collante per le dentiere e body positivity?

In una delle interviste che girano da ieri, la Cardinale raccontava d’aver rivisto “Il Gattopardo” restaurato insieme a Delon che le stringeva la mano dicendo che loro due erano gli unici rimasti vivi. M’è tornato in mente un amico che tempo fa s’è rivisto in dei filmati trasmessi in morte d’un qualche colosso defunto, in dei filmati in cui a parte lui c’erano solo colossi defunti, e ha constatato con terrore d’essere l’unico rimasto vivo. Oltre alla bancarotta dell’Enpals, c’è anche il problema che se vivi a lungo ti vedi morire tutti intorno.

E a noialtri sembra sempre che quello che muore sia proprio l’ultimo, il definitivo pezzo di Novecento che se ne va, ma non è così, ve lo dico con la sicumera di chi cataloga in continuazione quelli che potrebbero morire. La mia forma di necrofilia è metterli in ordine: questo quando muore mi dispero, questa quando muore ci saranno articoli per una settimana, quest’altro tutti i mitomani avranno una foto in sua compagnia.

I molto importanti per la formazione del nostro immaginario sono sempre meno, certo, ma ce ne sono ancora, pochi ma buonissimi. Praticamente nessuno non in età da Carta Argento delle Ferrovie dello Stato. È che, come Claudia Cardinale, hanno avuto la fortuna suprema di nascere al massimo a metà del Novecento: quando c’era ancora tutto, o quasi tutto, da sbagliare.

L'articolo Claudia Cardinale, Robert Redford e la fine della prima generazione pop proviene da Linkiesta.it.

Qual è la tua reazione?

Mi piace Mi piace 0
Antipatico Antipatico 0
Lo amo Lo amo 0
Comico Comico 0
Furioso Furioso 0
Triste Triste 0
Wow Wow 0
Redazione Redazione Eventi e News