Caos Francia, tre premier bruciati in appena un anno. Quali strade si aprono per Macron?

Bruxelles – Non c’è pace per la Francia, un tempo proverbiale per la sua stabilità politico-istituzionale ma da parecchi mesi terremotata dalla crisi più profonda della sua storia moderna. Da quando ha sciolto il Parlamento in seguito alla clamorosa sconfitta alle europee del giugno 2024, il presidente Emmanuel Macron si è visto bruciare tre premier in rapida successione, facendo precipitare il Paese nel caos mentre il suo apprezzamento personale colava a picco.
Il primo è stato l’ex commissario europeo e negoziatore di Bruxelles per la Brexit, Michel Barnier. Nominato a settembre e durato appena tre mesi, impallinato dall’Assemblée nationale più balcanizzata di sempre sulla questione cruciale del bilancio statale per il 2025. Dopo di lui è toccato al liberal-conservatore François Bayrou, macroniano della prima ora: ma anche lui è rimasto in sella per poco, saltando dopo nove mesi sempre sulla finanziaria (stavolta quella del 2026).
A quel punto, l’inquilino dell’Eliseo ha nominato premier ministre Sébastien Lecornu. L’ex responsabile delle Forze armate ha battuto l’ennesimo record, rimanendo in carica per soli 27 giorni e guidando un esecutivo (fotocopia del precedente) per appena 14 ore. A differenza dei suoi predecessori, tuttavia, Lecornu non ha aspettato di venire disarcionato dall’Assemblea e, lo scorso 6 ottobre, ha rassegnato le proprie dimissioni nelle mani del capo dello Stato, rimanendo in carica per gestire gli affari correnti.
Come si è arrivati qui?
Come conseguenza del voto anticipato dell’anno scorso, la camera bassa del legislativo transalpino è spaccata in tre blocchi principali che da 15 mesi non fanno altro che mettersi i bastoni tra le ruote a vicenda. Da un lato, c’è l’estrema destra del Rassemblement national (Rn), che in Aula detiene 123 seggi sui 577 totali ed è guidata in patria da Marine Le Pen (capodelegazione all’emiciclo) e in Europa dal suo delfino Jordan Bardella (capogruppo dei Patrioti a Strasburgo). Insieme ai lepenisti votano i 15 deputati della destra conservatrice (Udr) capitanati da Éric Ciotti.
All’estremo opposto, il cartello elettorale delle sinistre noto come Nouveau front populaire (Nfp), al cui interno convivono – non senza attriti – la sinistra radicale de La France insoumise (Lfi), il Parti socialiste (Ps), gli ecologisti e i comunisti. L’alleanza progressista può contare in totale su 195 eletti, ma al suo interno si registrano frizioni soprattutto tra l’Lfi del leader populista Jean-Luc Mélenchon e i socialdemocratici di Olivier Faure e Raphaël Glucksmann.
Schiacciata in mezzo c’è la coalizione presidenziale, che comprende il partito liberale di Macron Ensemble pour la République (Epr) e i centristi del Mouvement démocrate (MoDem) e di Horizons (Hor). Insieme ai neogollisti Républicains (Lr) e alle autonomie territoriali (Liot), queste forze sostengono l’esecutivo di minoranza con 211 seggi. In questa situazione, il compromesso è tanto fondamentale quanto, di fatto, impossibile da raggiungere.
Quali opzioni per Macron?
Costituzione alla mano, di fronte al capo dello Stato si aprono ora tre strade diverse. La prima è la nomina dell’ennesimo premier ministre, il quarto in poco più di un anno. Macron intende annunciare un nome entro la giornata di domani (10 ottobre), ma non è detto che il successore di Lecornu sia in grado di ottenere la fiducia di un Parlamento così frammentato.
Se anche ci riuscisse, comunque, dovrebbe far approvare all’emiciclo il bilancio per il prossimo anno: un’impresa che pare impossibile per chiunque, nonostante il cauto ottimismo ostentato dal premier dimissionario sulla possibilità di trovare un’intesa entro la fine dell’anno. Fin qui, l’inquilino dell’Eliseo ha scelto profili a lui vicini. Ora, questo giochetto potrebbe non riuscirgli più. Negli ultimi giorni molti dei suoi principali alleati – inclusi i “suoi” ex premier Gabriel Attal e Édouard Philippe – lo stanno criticando apertamente per la gestione della crisi da lui stesso innescata oltre un anno fa.
Il leader dei Républicains Bruno Retailleau ha suggerito di cooptare il prossimo premier da un partito esterno alla coalizione macroniana. Una soluzione di questo tipo, in cui il capo del governo è espressione di un colore politico diverso da quello della presidenza della Repubblica, è chiamata in gergo cohabitation. Guardando alla mappa dell’Assemblée, si dovrebbe trattare di un socialista. Tuttavia, i progressisti esigono che venga abbandonata la contestatissima riforma delle pensioni voluta da Macron e difesa strenuamente dai governi succedutisi fin qui nell’attuale legislatura.
Una seconda opzione è lo scioglimento delle camere e la convocazione di nuove elezioni. A spingere per un ritorno alle urne è soprattutto l’ultradestra di Le Pen, la quale ha ammonito che censurerà qualunque nuovo premier finché non verrà ridata la parola agli elettori. Gli altri partiti, dice Lecornu, non sarebbero per ora interessati dalla prospettiva di un voto anticipato. I sondaggi danno il Rn solidamente in testa col 32 per cento delle preferenze, mentre l’Nfp viaggia nei dintorni del 25 per cento (ma non è scontato che si presenti unito sulla scheda elettorale). Centristi e neogollisti si attestano rispettivamente sul 15 e 12 per cento.
La terza alternativa è rappresentata dalle dimissioni dello stesso presidente, come chiedono a gran voce l’estrema destra e la sinistra radicale. Attualmente al suo secondo mandato (la cui scadenza naturale è nella primavera del 2027), Macron non può ricandidarsi ed è pertanto ostinatamente contrario ad imboccare questa strada. In Francia il presidente della Repubblica ha ampi poteri esecutivi soprattutto nell’ambito della politica estera e di difesa, laddove l’autorità del primo ministro si manifesta principalmente sulle questioni domestiche.
La prospettiva da Bruxelles
L’avvitarsi della crisi Oltralpe è seguita con angoscia dai corridoi del potere di Bruxelles. La prospettiva – ora più reale che mai – che l’ultradestra euroscettica (ancor più di quella al governo in Italia) salga al potere in uno dei Paesi fondatori dell’Ue, mandando definitivamente in panne il cosiddetto motore franco-tedesco (già in crisi da tempo) è particolarmente indigesta per la maggioranza centrista di Ursula von der Leyen.
Ma oltre alle implicazioni che un esecutivo trainato dal Rn potrebbe avere sui tavoli decisionali comunitari, a preoccupare i vertici a dodici stelle è soprattutto la tenuta finanziaria di Parigi. Il nodo del bilancio rimarrà il più intricato per chiunque sostituirà Lecornu al governo (lui, in qualità di premier ad interim, non può proporre una nuova manovra), con un deficit ormai vicinissimo a sforare il tetto dei 6 punti di Pil stabilito dai trattati. Tecnicamente, la deadline per presentare la manovra per il 2026 scade la prossima settimana: a quel punto, l’Assemblea potrà solo approvare la parte relativa alle entrate di un eventuale nuovo piano di bilancio oppure prorogare il bilancio dell’anno corrente, come accaduto lo scorso dicembre.
Il ministro dell’Economia transalpino, Roland Lescure, ha provato a rassicurare i partner europei all’Eurogruppo di oggi: “Le discussioni politiche proseguono” per dare al Paese un nuovo premier “entro domani”, ha dichiarato, promettendo che in ogni caso si adopererà per fare in modo “che ci sia un bilancio per la crescita e la riduzione del deficit, in linea con gli impegni assunti dalla Francia di riportare il deficit sotto la soglia del 3 per cento nel 2029″.
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