Genova, mezzo secolo di fallimenti: ora si parla dello stadio, scadenza 2032, ce la faranno?

Il progetto milanese di demolire lo stadio di san Siro, ricostruendone un altro e rigenerando l’area interessata, mette Genova ancora una volta in braghe di tela, per usare una espressione marinaia.
A Milano sanno cosa è la rigenerazione urbana, anche perché in una città come quella, alla quale la natura non ha regalato nulla, se non ti inventi qualcosa il panorama urbano resta piatto, piatto, noioso, triste.
Puoi consolarti solo passeggiando per i navigli o arrampicandoti sul bosco verticale.
La decisione, contestatissima, di gettare giù il tempio di san Siro, se mai andrà in porto del tutto, promette un’altra operazione rigenerativa di grande imponenza. dove non basta più neppure il green green, ci vuole altro.
Milano ha bisogno continuamente di rigenerarsi, con City Life, appunto con i boschi verticali e ora con questo immenso parco, più stadio e annessi e connessi in una zona che stava degradandosi.
A Genova non abbiamo questo problema, perché la natura ci ha dato il mare e le alture e uno scenario mediterraneo da favola. Eppure anche noi abbiamo qualche problema, come quello dello stadio, intoccabile in teoria come il vecchio San Siro e infilato in un quartiere centrale della città, di fianco al torrente Bisagno, prodigo di alluvioni e confinante niente meno che con le carceri, pochi metri di distanza dalla mitica Gradinata Nord, quella del Genoa.
Genova umiliata da Milano

Genova discute da anni dello stadio nuovo da rifare lì o magari da trasferire altrove. Ogni sindaco ci prova e non ci riesce. Anche la giovane Salis ha incominciato, consegnando il vecchio Luigi Ferraris (che è ancora uno stadio meraviglioso per vedere le partire, vergognoso per abitarlo) alle due società genovesi, Genoa e Sampdoria, oggi molto in difficoltà sportivamente, ultime in classifica in A e in B e la seconda con reali problemi di futuro.
Salis ovviamente ha sottolineato che la proprietà dello stadio deve assolutamente restare pubblica, poi le società lo modifichino come credono, ma in fretta, per concorrere a partecipare agli Europei del 2032, da cui Genova, dove il calcio è nato, non può mancare.
E così proprio negli ultimi giorni il progetto nuovo stadio, forse sulla spinta di Milano, è improvvisamente ripartito con le mosse della società Stadium, costituita appunto da Genoa e Sampdoria, che ha il compito di rifare lo stadio, spendendo circa 100 milioni, in cambio di una concessione di 99 anni.
Questa società, che è per ora una scatola vuota, ha però in tasca già un progetto dell’arcistar colombiana Herbert Penaranda, ex allievo di Renzo Piano, per anni operativo a Genova, Questo progetto, che modifica non molto l’attuale stadio, è molto indietro nel suo percorso burocratico, se vuole centrare la data del 2032.
Burocrazia in agguato
I piani, appena consegnati in Comune, devono ancora passare la tagliola della Conferenza dei servizi e gli altri step burocratici per sperare di avviare i lavori nell’estate del 2026. Ipotesi mirabolante sopratutto perché la Società sembra paralizzata dai suoi problemi di finanziamento, a meno che la sindaca Salis, ex vicepresidente Coni, non abbia una bacchetta magica per trovare i finanziamenti.
Il progetto di spostare, invece, lo stadio altrove si è sempre infranta contro mille difficoltà, da quelle storiche di fedeltà al luogo delle origini, alle impossibili soluzioni alternative, magari vagheggiate da grandi personaggi come Riccardo Garrone, il petroliere della Erg, poi inventore delle energie alternative, già presidente della Samp, che aveva immaginato diverse collocazioni, a partire da quella alla Fiera del Mare, all’epoca con destino incerto e in disfacimento, fino alla zona della Colisa in Valpolcevera.
Garrone affidò il progetto anche a un grande impresario Giacomazzi, che si scontrò contro molti muri cittadini. Un vero protagonista genovese di quegli anni, il presidente di Carige, la ex grande banca genovese, Giovanni Alberto Berneschi, angelo e diavolo della vita genovese fino alla sua clamorosa caduta, soleva ironizzare sull’operazione stadio. “Prendete un elicottero e sorvolate Genova, troverete molti luoghi dove pensare uno stadio…….”, provocava senza spiegare poi dove erano questi luoghi nel saliscendi genovese.
La realtà è che a Genova nel suo Dopoguerra ogni tentata “rigenerazione urbana” con o senza stadio, a differenza che a Milano, è miseramente fallita.
È fallita l’operazione via Madre di Dio, dove un quartiere storico e ombelicale, è stato raso al suolo, abbattendo pure la casa madre di Paganini, creando un mostro nel cuore della città e un vuoto di verde fasullo, battezzato “i giardini di plastica”, inconsistente urbanisticamente e inutile anche per migliorare il centro genovese, schiacciato dalle sue anonime palazzate, che oscurano perfino il grande grattacielo Piacentini.
Con il senno di poi è fallita anche l’operazione Piccapietra, il quartiere dove Balilla lanciò il sasso, vecchie case intorno alle macerie del vecchio ospedale San Domenico, spianato dalle ruspe, che ha avuto un boom negli anni Sessanta e che ora è un cadavere di palazzi vuoti, addio Rinascente, addio Miralanza, addio Italimpianti, addio l’iconico Bar Motta, addio prestigiose gallerie commerciali di grandi “firme”, oggi chiuse con cancellate di notte per impedire che diventino il ricovero dei senza tetto.
Sono fallire urbanisticamente le operazioni edilizie sulle colline, lanciate dalle “giunte rosse” negli anni Settanta-Ottanta. come a Begato, alta Valpolcevera, dove la famosa Diga, una muraglia di case popolari, è stata recentemente abbattuta dal sindaco Bucci per riqualificare la vita del quartiere.
Prima di tutto in secula seculorum è fallita, e mai intrapresa sul serio, la rigenerazione del centro storico, che è il grande buco nero di Genova, ancora oggi in stato di allarme per la sua sicurezza, tanto che la giunta Salis sta organizzando ronde di volontari per scortare gli abitanti che hanno paura di tornare a casa nei meandri dei caruggi, dove dilaga lo spaccio di droga in mano a bande di immigrati senegalesi e nord africani, mentre la prostituzione continua, come sempre da secoli, ma è diventata multicolor, multirazziale.
Qui resta solo l’isola felice della rigenerazione urbana dei Giardini Luzzati, a fianco del Teatro della Tosse e intorno a piazza delle Erbe, diventati un potente centro di aggregazione, con servizi efficienti e moderni per ogni generazione, ma questo grazie a imprenditori e rigeneratori di buona volontà e genio creativo, come Marco Montoli e la sua squadra.
E poi resta il grande punto interrogativo del Water Front di Levante, la zona dell’ex Fiera, sicuramente ripartita, ma con molti interrogativi sulla fedeltà al piano originale di collegare quell’area con quella del Porto Antico, vera perla di recupero urbano del 1992, grazie a Renzo Piano e alla fantastica rigenerazione delle vecchie banchine.
Questa sì una splendida operazione urbana, che dobbiamo ai 500 anni di Cristoforo Colombo e a un gruppo di giganti politici di quell’epoca, in testa Paolo Emilio Taviani, il superministro dc, studioso di Colombo, il sindaco socialista Fulvio Cerofolini e il presidente dell’Expò 92, l’avvocato liberale Gustavo Gamalero.
Allora la rigenerazione urbana, che si potrebbe tentare a Marassi, se lo stadio mutasse o addirittura si trasferisse, magari con il sempre auspicato e mai neppure studiato trasferimento del carcere, appare un vero obiettivo impossibile.
Altro che Milano. A patto che nella cosidetta “capitale morale” d’Italia l’operazione san Siro, approvata dal consiglio comunale, ma molto discussa, vada veramente in fondo.
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