Manolo Blahnik parte dalla nuova apertura di Milano in un'intervista esclusiva ad Amica in cui racconta della sua carriera e del suo successo

Milano. Un indirizzo, via Pietro Verri, che oggi splende di una luce ancora più rara: è qui che Manolo Blahnik (o forse dovremmo chiamarlo Mister o Commander, come vuole l’etichetta britannica, o addirittura Señor Manolo, vista la sua nascita nel ’42 sotto il caldo sole di Santa Cruz de la Palma), regala una nuova boutique talmente raffinata che persino le ombre sembrano indossare il tacco dodici.

Eppure, tra titoli e onorificenze (la Regina Elisabetta lo ha insignito Commendatore dell’Ordine dell’Impero Britannico nel 2007, ça va sans dire), lui preferisce una confidenza: «Mi chiami Lito, come faceva la mia mamma – un privilegio che concedo solo ai pochi, sa?». E sorride, sornione, vestito di un verde smeraldo che farebbe invidia agli smeraldi in perfetto contrasto con stringate color becco d’oca, perché il vero chic non si spiega: si indossa.
La nuova boutique nel cuore del quadrilatero della moda
Nel cuore del quadrilatero, lo spazio sussurra artigianalità italiana, quella vera, cementata dall’acquisizione della manifattura Re Marcello a Vigevano nel 2019, mica le solite storie di Made in Italy narrate da chi il Bel Paese lo conosce solo in cartolina. Il design? Un tributo neanche tanto velato a Constantin Brancusi, con colonne che paiono sospese tra sogno e memoria, mentre le piastrelle bianche e nere strizzano l’occhio alla cucina della nonna: perché anche la nostalgia può essere couture.

Manolo e Kristina Blahnik nella nuova boutique milanese del brand nel cuore del quadrilatero della moda (Cortesy of Press Office)
Parlando, scherza sulla pavimentazione a scacchi: «Guai a menzionare la somiglianza con una scacchiera: non amo gli scacchi e i giochi di carte, piuttosto datemi un libro», sorride. Alla domanda su quale fragranza vedrebbe intonata all’ambiente, risponde così. «Il bienmesabe che preparava mia nonna…», sospira riferendosi a un dolce delle Canarie a base di mandorle, zucchero, tuorli e limone, capace di evocare immediatamente il calore di un’infanzia vissuta tra una piantagione di banane e i giochi con la sorella Evangelina.
Un’infanzia cosmopolita e felice, visto che è figlio di madre spagnola e padre ceco, e in nessun modo omologata all’immaginario dei loft newyorkesi. E tra una rivelazione e l’altra, il Maestro stuzzica: «Non sa quanti uomini mi scrivono per confessare: “Lei mi ha rovinato le finanze, ma ha salvato il mio matrimonio, perché le sue scarpe costano meno di un divorzio!”. Insomma, la filantropia a modo mio».
Lo dice chi, per l’inaugurazione, presenta tre modelli esclusivi – Sixahi, Trinca e Pranzana – che attingono al Bauhaus e all’architettura visionaria di Gio Ponti, trasformando la boutique in una galleria dove storia personale, arte e design danzano insieme come in un valzer viennese. E poi ci sono i suoi classici: le Campari (la sua versione delle Mary Jane), le Hangisi e le Sedaraby, calzature che hanno più grazia di una prosa di Dorothy Parker.

L’interno della nuova boutique Manolo Blahnik in via Pietro Verri a Milano (Courtesy of Press Office)
Manolo Blahnik: animo chic, snob e irresistibilmente ironico
Vive non lontano da Londra, circondato da 40mila dvd e dieci cani, tra cui il preferito: Achille, in omaggio a quell’eroe che aveva nel tallone il suo punto debole. Non indossava evidentemente calzari Blahnik: la chiacchierata si svolge in tre lingue diverse, ma lui rimane sé stesso. Chic, snob, irresistibilmente ironico. E, almeno per questa intervista esclusiva, l’ultima parola spetta a Lito, il quale inizia raccontando un aneddoto tenero e intimo: «Riguarda le fiabe della buonanotte: da bambino rimasi folgorato dalle storie su Maria Antonietta che nostra madre leggeva a me e mia sorella, alimentando un immaginario di balli, sete preziose e broccati d’epoca. E chi l’avrebbe detto che poi quelle scarpe che immaginavo le avrei realizzate per Milena Canonero proprio per i costumi di Marie Antoinette, il film di Sofia Coppola?».
L’intervista esclusiva di Amica
Come mai proprio adesso ha scelto Milano?
È tardi, vero? Meglio tardi che mai, come dite voi italiani. Mi sento profondamente legato al vostro Paese, non solo perché ogni mia creazione prende vita a Vigevano, ma anche per quell’eleganza innata che appartiene alle donne italiane – un’eleganza che, lasciatemelo dire con un pizzico di affettuoso snobismo, supera persino quella delle parigine. Le italiane possiedono un modo di camminare unico al mondo, un portamento che trasforma ogni marciapiede in passerella. Questa è la vera classe italiana: non si impara, si respira, si eredita come un segreto di famiglia.
Lei ha collaborato con i più grandi designer del mondo, da John Galliano a Ossie Clark, le sue creazioni sono monumenti pedestri allo stile. Allora perché sostiene che la moda non la interessa?
Voglio che le mie scarpe incarnino stile personale e creatività, al di là del trend del momento: diventano frammenti di un racconto estetico senza tempo, oggetti con un’anima narrativa. Disegnando modelli come la Tortoise, con intarsi di corallo, amata da Franca Sozzani, ho infatti agito d’istinto, senza pensare alla moda. Disegno spontaneamente, creando scarpe che amo perché sono senza tempo, lontane dalla moda. Le cose che mi piacevano mi piacciono ancora adesso. Per esempio, visivamente sono esattamente lo stesso che ero quarant’anni fa, mi piacciono ancora le stesse cose, gli stessi edifici, le stesse persone, la stessa bellezza. Mi pare che siamo approdati a una sorta di tranquillizzante uniformità: nessuno osa più desiderare oltre, nessuno si spinge verso il sublime, il sorprendente, il meraviglioso. La moda, francamente, non mi seduce. Ciò che mi appassiona è dare forma a creazioni destinate a sfidare il tempo, forgiate dalle mani esperte degli artigiani, sospese tra memoria e sogno. Non ho mai amato seguire le tendenze: ciò che conta davvero è distinguersi, non confondersi. Preferisco l’eleganza dell’individualità e l’audacia di chi osa essere sé stesso. Se qualcosa ti conquista, fallo tuo e rendilo parte del tuo stile personale.

L’interno della nuova boutique Manolo Blahnik in via Pietro Verri a Milano (Courtesy of Press Office)
Abbiamo una cosa in comune: detestiamo l’aggettivo “iconico”…
Davvero, anche lei? Preferisco dedicarmi anima e corpo al lavoro creativo piuttosto che cercare la luce dei riflettori. Non mi interessa essere definito un grande marchio o, peggio ancora, “iconico”. Desidero semplicemente continuare a fare ciò che amo, con la stessa passione e autenticità di sempre. Ho già tutto ciò che potrei desiderare, e custodisco nel cuore ricordi splendidi che valgono ben più di qualsiasi riconoscimento. Per me, il vero successo risiede nella libertà di poter creare, senza cedere alle seduzioni alle sirene del marketing aggressivo. Questa è la mia idea di felicità e appagamento.
Eppure, è diventato un marchio globale a causa di Sex and The City… Madonna ha detto che paio di Manolo sono meglio del sesso. Naomi Campbell ha detto che è il padrino della suola. Sarah Jessica Parker dice che le tue scarpe sono opere d’arte. Mica testimonial qualunque…
È buffo, sa? Non guardavo la televisione. Mi dissero: «Lito, sei in una serie americana con quattro donne che parlano solo di scarpe e uomini!». Pensai fosse una commedia di Molière. Invece era il mio debutto in tv! La scena era quella in cui Mr. Big propone a Carrie di sposarlo con un paio di Hangisi blu, non con un anello. Un’idea meravigliosa, poetica, quasi rinascimentale. Quelle scarpe hanno avuto più pubblicità di quanto avrei potuto comprare in tre vite. Da allora, mi scrivono donne da ogni continente: «Voglio le scarpe del matrimonio di Carrie Bradshaw!», neanche come fossi il loro parroco. Ma non mi lamento, anzi. Quelle Hangisi hanno reso felici milioni di persone. È il potere della fantasia: una scarpa che diventa una promessa d’amore. E poi, se proprio devo scegliere un modo per essere ricordato, preferisco questo a una statua di bronzo in qualche piazza triste.
Invece, ama molto il cinema…
Soprattutto quello italiano. Da bambino avevo una tata con un nome bellissimo, Maria Socorro (in italiano, “Maria che aiuta”, ndr), che mi portava al cinema anche se non avevo l’età per vedere film da grandi. Fui folgorato da Senso, di Luchino Visconti, con una bellissima Alida Valli, le musiche dell’epoca, la fotografia così curata…

L’interno della nuova boutique Manolo Blahnik in via Pietro Verri a Milano (Courtesy of Press Office)
E poi ha ritrovato Visconti…
Esatto! Quando lui venne a presentare Il Gattopardo a Parigi, dove ho vissuto a lungo, dopo la proiezione ci chiesero di fargli delle domande. Ero spaventatissimo e gli domandai la cosa più stupida che mi passò per la mente: pur sapendo che aveva diretto La terra trema o Bellissima, gli balbettai: «Ma perché fa sempre film in costume?» e lui rispose: «Giovanotto, senza le tradizioni, non siamo niente!». È una frase mantra che ho fatto mia.
Ma anche le sneakers fanno parte della tradizione… Perché le detesta tanto?
Perché sono un falso storico. Amo moltissimo le scarpe da tennis, perché hanno una funzione precisa – mio padre le indossava sempre per giocare con la racchetta – ma non capisco perché usarla con quegli orribili jeans per andare in giro nelle vie eleganti del centro. E più sono firmate da grandi designer, più mi sembrano orribili.
Però, scusi. Ha collaborato con Birkenstock: non è un paradosso?
Io a-do-ro le Birkenstock! Da ragazzino non mi piacevano, le trovavo spaventose. Poi le ho provate e sono fantastiche. Quindi, le ho decorate a modo mio. Perché no, del resto?
Ma comfort e tacchi alti possono convivere pacificamente?
Ho dedicato decenni della mia esistenza, con una meticolosità quasi ossessiva, allo studio e alla perfezione dei miei tacchi alti, non solo per renderli esteticamente impeccabili, ma anche sorprendentemente confortevoli. Mi permetta di ribadire un concetto che ritengo fondamentale, ma che troppo spesso sfugge ai più: nulla, davvero nulla, è meno elegante di una donna che, scegliendo scarpe sproporzionate alle proprie abilità, inciampa goffamente nel tentativo di apparire sofisticata. Il vero lusso, mi creda, consiste nell’armonia tra l’oggetto e chi lo indossa, e il comfort non è un optional, bensì un imperativo categorico, quasi un dovere morale. E non si lasci ingannare dai luoghi comuni: necessita di una raffinatezza superiore e di un’audacia non comune saper camminare con grazia su un mezzo tacco piuttosto che su un vertiginoso stiletto da dieci centimetri.

Per celebrare l’apertura milanese, il brand presenta in esclusiva tre modelli – Sixahi, Trinca e Pranzana – ispirati al movimento Bauhaus del XX secolo e alla visione architettonica e di design di Gio Ponti (Courtesy of Press Office)
Mi dice i nomi di tre donne italiane che camminano meglio?
Gliene cito quattro: Benedetta Barzini, Anna Piaggi, Carla e Franca Sozzani. Benedetta è tra le mie milanesi preferite, quel suo incedere pazzesco mi incanta ogni volta. E la Signora Piaggi, Anna, è stata per me un’amica e una luce: a Milano mi invitava a quelle serate improbabili con Paloma Picasso e Walter Albini: un’epoca frizzante che non si dimentica. Carla e Franca Sozzani hanno e avevano questa capacità unica di fondere moda, arte e cultura. Tutte loro quell’eleganza visionaria e quell’ironia colta che amo dell’Italia. Donne capaci di educare al bello con la stessa nonchalance con cui si sorseggia un caffè mentre raccontano storie magnifiche.
Che cosa la spaventa di più?
Non invecchiare, se a questo che fa riferimento. Il dolore mi fa paura. Quando sono caduto dal primo piano al pianoterra di casa mia e mi sono rotto una gamba e un braccio, mi ha davvero sconvolto. La morte in sé non mi preoccupa. Perdere gli altri, invece, mi è difficile da sopportare.
Che cosa la rende più felic
Avere tempo: per leggere, scrivere, informarmi, disegnare. Sa, contrariamente a quanto si può credere, non sono mai stato mondano: non sono solo, sono un solitario. Non sopporto la folla o le feste. Cerco momenti di beatitudine, che per me vuol dire stare campagna con i miei cani. Li amo più delle persone.
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