Così il Messico ha ridotto la povertà aumentando il salario minimo

Settembre 23, 2025 - 01:00
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Così il Messico ha ridotto la povertà aumentando il salario minimo

Prima sono arrivati i Cinque Stelle. Nel 2018, Luigi Di Maio, dopo aver trovato la copertura per finanziare il reddito di cittadinanza, si affacciò dal balcone di Palazzo Chigi e annunciò: «Abbiamo abolito la povertà». Poi, qualche giorno fa, anche la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen nel discorso sullo stato dell’Unione ha promesso di voler abolire la povertà entro il 2050.

Ma tra tante promesse, salari che non crescono e poveri che non calano (nel 2024 93 milioni di persone in Europa erano a rischio povertà o esclusione sociale), c’è una notizia passata quasi inosservata nella calura estiva.

La notizia è che c’è un Paese ben lontano dall’Europa, il Messico, che la povertà non l’ha abolita certo, ma l’ha molto ridotta: dal 2018 al 2024, il tasso di povertà generale messicano è sceso dal 42 al 29,6 per cento della popolazione. E tutto puntando su un mix di sussidi, lavoro e salari. Ma più che i trasferimenti di denaro, a incidere sono state le politiche salariali.

Il 14 agosto, la presidente messicana Claudia Sheinbaum si è presentata con un grande sorriso alla conferenza stampa quotidiana. Il giorno prima, l’Instituto Nacional de Estadística y Geografía aveva certificato che oltre 13 milioni di persone sono uscite dalla povertà durante il mandato del predecessore Andrés Manuel López Obrador, noto come “Amlo”. Quando è stato eletto la prima volta, nel 2018, i poveri erano 52 milioni, quando ha lasciato ce n’erano 13,4 milioni in meno. Con un calo di 8,3 milioni solo tra il 2022 e il 2024. E anche la povertà assoluta è scesa da quasi 9 milioni a 7 milioni di persone.

Certo, non stiamo parlando del Bengodi. Tre persone su dieci in Messico sono ancora povere (38,5 milioni). E nel Paese persistono grandi disuguaglianze, alti tassi di corruzione e criminalità, legata soprattutto al narcotraffico.

Ma quello messicano è un caso di studio interessante. Perché, come sottolineano diversi esperti, questi risultati sono dovuti soprattutto alle riforme del mercato del lavoro e non a un aumento dei trasferimenti di denaro per i poveri.

È stato soprattutto il continuo aumento del salario minimo, infatti, a rivelarsi decisivo. Tra il 2018 e il 2024, la paga minima oraria è raddoppiata a livello nazionale e triplicata nella zona di libero scambio lungo il confine settentrionale, che comprende 43 città distribuite in sei Stati confinanti con gli Stati Uniti, la regione più industrializzata del Messico. Si è passati dall’equivalente di 4,75 dollari a 15 dollari.

Secondo uno studio della Banca Mondiale, su un calo della povertà di 8,5 punti tra 2020 e 2022, 6,85 punti dipendono dal salario minimo e solo 1,65 dai sussidi. «Senza assistenza sociale, la povertà sarebbe diminuita della stessa proporzione, attestandosi intorno al 32 per cento», ha spiegato l’economista Gerardo Esquivel sul quotidiano Milenio.

 

L’aumento del salario minimo, quindi, non ha creato quelle conseguenze negative che sventolano i critici della misura anche qui in Italia. Anche se gli stipendi dei lavoratori meno qualificati sono cresciuti, la domanda per quei lavori non è calata. Anzi. Il tasso di disoccupazione messicano, al 2,8 per cento, è ai minimi storici. E l’aumento del salario minimo ha generato a sua volta anche un aumento dei guadagni derivanti dal lavoro informale, che rimane comunque predominante in Messico e interessa il 53,7 per cento della forza lavoro.

Oltre a far crescere il salario minimo, il governo di López-Obrador ha attuato poi diverse riforme del lavoro, mentre la sinistra deteneva la maggioranza al Congresso. La regolamentazione dei subappalti ha costretto molte aziende ad assumere direttamente i propri dipendenti. Il governo ha poi ampliato l’accesso alla previdenza sociale e la partecipazione dei lavoratori agli utili delle imprese e i datori di lavoro sono stati inoltre obbligati ad aumentare i contributi per la pensione e i congedi retribuiti. Nel frattempo, le regioni più povere del sud del Paese hanno beneficiato degli investimenti pubblici con importanti progetti infrastrutturali, come il contestatissimo “Tren Maya”, una linea ferroviaria di oltre 1.500 chilometri nella penisola dello Yucatán.

«Si tratta di uno dei maggiori incrementi di reddito nella storia recente del Paese, ottenuto senza una forte crescita economica, che si è attestata in media all’1,1 per cento annuo», dice l’economista Viri Rios, direttore della newsletter “Mexico Decoded”. «Migliorando salari e condizioni di lavoro, il Messico ha dimostrato che è possibile ridurre la povertà senza che la crescita sia il motore principale».

Un risultato sorprendente, che conferma che il salario minimo non distrugge ma può creare lavorocome ha dimostrato tra l’altro anche il premio Nobel per l’Economia David Card. Ed è un risultato che prova ancora una volta che per uscire dalla povertà non servono tanto assegni e sussidi, ma un lavoro pagato in maniera dignitosa.

Il Messico, certo, continua a essere un Paese povero, pieno di contraddizioni e c’è ancora molto da fare. Molti dei messicani più poveri vivono in zone rurali remote, dove accedere all’assistenza sociale è quasi impossibile, e questo spiega anche perché dal 2018 al 2024 la povertà assoluta è scesa meno (19 per cento) di quella generale. Negli stessi anni, poi, i miglioramenti nell’istruzione sono stati marginali e i messicani che non hanno ancora accesso ai servizi sanitari sono raddoppiati rispetto al 2018 (44,5 milioni).

Claudia Sheinbaum ha promesso ora di aumentare la spesa sociale, anche se deve far fronte al rallentamento economico e alle incertezze legate ai dazi di Trump. «Abbiamo ancora progressi da fare? Sì», ha risposto la presidente. «Con il 30 per cento della popolazione messicana che vive in povertà, è ovvio che dobbiamo continuare ad andare avanti». Intanto, per il 2025 è previsto un aumento del salario minimo del 12 per cento.

 

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