I social hanno reso glamour i mercati delle pulci e d’antiquariato

Brimfield è la terra promessa per i collezionisti. Dal 1959 il mercato delle pulci più grande degli Stati Uniti accoglie una folla d’appassionati in cerca di un tesoro da portare con sé. Che sia un comodino in stile rococò, una lampada Tiffany finanche un tavolo da fattoria. Oltre cinquantamila persone fanno la fila per accaparrarsi l’agognato cimelio già dalle prime luci dell’alba.
È così che, per ben tre volte l’anno, la cittadina nella contea di Hampden, in Massachusetts, si ripopola. Secondo quanto riportato dall’ultimo censimento, il numero di abitanti, nel 2020, non raggiungeva i quattromila. A maggio, luglio e settembre, per sei giorni di fila, Brimfield cambia faccia, trasformando anche i neofiti in fenomeni del thrifting. Voce del verbo thriftare, “andare alla ricerca di un buon affare” (i linguisti non se la prendano).
Un odore dolciastro di bevande energetiche Celsius infesta la coda chilometrica di tote bag e buste dell’Ikea all’apertura dei cancelli di Brimfield e il brusio è simile a quello che si può udire all’ingresso di un qualsiasi festival musicale europeo. Molti venditori sono pronti dalle sei, ma per accontentare i clienti sono disposti ad anticipare di un po’ l’accesso agli stand, si legge su MassLive, testata locale.
Il Times, invece, nel 2009, aveva definito il mercatino del New England uno «showroom sotto steroidi» e se, sedici anni fa, ci si abbandonava a una simile iperbole per risvegliare nella collettività una precisa immagine, non stupisce che l’espressione sia, ancora, più che mai attuale. Eppure qualcosa è cambiato.
Se fino a qualche anno fa i collezionisti stavano ore a setacciare tra i banchi alla ricerca di un oggetto speciale, durante l’ultima edizione del Brimfield Market, conclusasi qualche giorno fa, un’orda di persone si è riversata tra gli stand per arraffare più roba possibile. Principalmente vestiti.
Un disordinato trambusto solo per un po’ di roba, nel senso verghiano del termine. Sebbene lo scenario di una Brimfield rurale assomigli per certi versi alla campagna siciliana dell’avido Mazzarò, qui non si parla di appezzamenti di terre e aranceti, ma di capi d’abbigliamento.
Utenti di Instagram che hanno atteso questo momento per mesi e anche pseudo-imprenditori (di loro stessi) che dal lockdown si sono cimentati con successo nel reselling. Ovviamente, su Vinted e su Depop, piattaforme dove la Gen Z muove i primi passi in fatto di vendite. Depop ha oltre trenta milioni di utenti registrati e il novanta per cento di essi sembrano proprio avere l’età degli avventori di Brimfield.
Un recente articolo sul Times racconta la folla trendy, confermando che la clientela ricerca capi simili a ciò che indossa. Una tendenza che si adatta perfettamente alle logiche di engagement cui i social sono soliti dettare. Spopolano su TikTok video contenti tips e miniguide su cosa e dove acquistare, su quale stile sia meglio avere. Si tratta di un fenomeno globale (o virale) quello del flea market. Dagli Stati Uniti, ci si sposta in Europa e, poi, a Roma, a Porta Portese, dove la dinamica è pressoché la stessa.
Reduci da una domenica mattina d’acquisti in pieno Trastevere, i creator filmano il proprio haul, “bottino”, dove mostrano ai follower cosa hanno acquistato e come stylarlo, ossia abbinarlo. Altre volte, invece, basta un vlog per essere con loro al momento iconico della scelta dei capi. Solo l’hashtag #thrifting conta oltre cinque miliardi di visualizzazioni.
Ma non sempre ciò che viene thriftato è vintage e non sempre fan di mercati e bancarelle ricordano la differenza tra vintage e seconda mano. Un oggetto vintage deve avere un trascorso di almeno vent’anni, durante il quale deve essere diventato riconoscibile. Insomma, deve avere una storia.
Per il second hand, non ci sono tutti questi limiti e basta solo che sia stato usato da qualcuno che abbia deciso di declutterarlo (altra pratica alla quale i creators sono avvezzi) o metterlo in vendita.
Beninteso, passano per il second hand anche tutti quei capi di fast fashion che hanno terminato il loro (breve) ciclo di vita e risultano superati. Buttati su qualche piattaforma in ottima compagnia di indumenti e oggetti targati Zara, H&M, o Mango attendono un’altra chance.
Spesso, tra le altre cose, texani e giacche in finta pelle finiscono tra gli scaffali di un qualche franchising come Humana Vintage. Altre volte è capitato di coglierli in flagrante al Vinokilo. Evento di massa, famoso per la sua invereconda convenienza. Cinquanta euro per un chilo di roba (un chilo si raggiunge molto più facilmente di quanto si pensi quando ci si registra all’evento gratuitamente).
Il punto è che comprare usato dovrebbe essere una scelta ecologica, dettata da una filosofia di riutilizzo. Dovrebbe, pertanto, favorire l’allungamento della vita di un capo in opposizione alla rapidità con la quale oggetti e vestiti si muovono nei principali negozi di massa. Se si esce da questo presupposto, si rischia di mettere in discussione un sistema di per sé virtuoso trascinando i capi, nell’ennesimo ciclo di fast fashion compulsivo.
In conclusione, il second hand, per certi versi, è un atteggiamento più sostenibile rispetto al buy now ma fino a che non genera una forma viziata di consumo. Il report fornito da ThredUp sottolinea che l’intero settore raggiungerà un valore globale di 376 miliardi di dollari entro il 2029 confermando che ci troviamo al cospetto di una tendenza che sta rivoluzionando il mondo della moda. Il che sarebbe una fortuna se solo il comportamento dei consumatori fosse sempre dettato dall’intento ecologico e consapevole.
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