Il premier francese Lecornu schiva la censura per un pugno di voti. Ma il Parlamento lo aspetta al varco sul bilancio

Ottobre 17, 2025 - 00:00
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Il premier francese Lecornu schiva la censura per un pugno di voti. Ma il Parlamento lo aspetta al varco sul bilancio

Bruxelles – Per il momento, Sébastien Lecornu può tirare un sospiro di sollievo. Il primo ministro francese è sopravvissuto alle due mozioni di sfiducia votate oggi (16 ottobre) dall’Assemblée nationale, grazie al sostegno determinante dei socialisti. Nessuna delle due votazioni ha raggiunto la soglia critica dei 289 “sì” necessari per disarcionarlo, anche se la prima – quella della sinistra radicale – ci è andata più vicino del previsto. Ma non è affatto rientrata la peggiore crisi politica della storia francese moderna, e di fronte all’inquilino di Palazzo Matignon la strada è ancora tutta in salita.

La mozione depositata da La France insoumise (Lfi), il partito guidato da Jean-Luc Mélenchon, ha raccolto 271 voti favorevoli mentre quella del Rassemblement national (Rn), l’ultradestra di Jordan Bardella e Marine Le Pen, è rimasta inchiodata a quota 144. Si sapeva già che la più insidiosa sarebbe stata la prima, poiché il Rn aveva dichiarato che l’avrebbe sostenuta (al contrario, le sinistre del Nouveau front populaire non hanno votato quella dei lepenisti).

Si sapeva anche, o almeno si presagiva, che nemmeno quella degli insoumis sarebbe passata, dal momento che negli ultimi giorni il Parti socialiste (Ps) aveva annunciato di non voler affossare Lecornu, dimostrando interesse per le aperture sulla contestatissima riforma delle pensioni, voluta da Emmanuel Macron nel 2023 ma ora sospesa fino al 2028 proprio per tenere a bordo il partito di Olivier Faure. La sorpresa è stata, piuttosto, sullo scarto di voti che ha permesso a Lecornu di rimanere in sella.

Olivier Faure
Il segretario del Parti socialiste francese, Olivier Faure (foto: Ludovic Marin/Afp)

Pallottoliere alla mano, il premier ministre dalla carriera (fin qui) più breve della Quinta Repubblica – il suo primo mandato è durato meno di un mese, mentre il secondo è cominciato pochi giorni fa – ha schivato la censura per soli 18 voti. Non pochissimi, ma meno dei 24 preventivati nei calcoli della vigilia. Tra i gruppi non “sospetti” (dunque escluse le sinistre e le destre), al capo dell’esecutivo hanno voltato le spalle sette deputati socialdemocratici, una conservatrice neogollista dei Républicains (Lr), due indipendenti e un rappresentante delle autonomie territoriali (Liot).

Il leader del Rn, Bardella, ha commentato causticamente l’esito del voto, puntando il dito contro l’asse innaturale tra Socialisti e centristi: “Una maggioranza messa insieme con accordi sottobanco è riuscita oggi a salvare le proprie posizioni, a scapito dell’interesse nazionale“, l’affondo del delfino di Le Pen. Delusione anche dall’estremo opposto dell’arco parlamentare, con la capogruppo insoumise Mathilde Panot che si rammarica per “tutti coloro che subiranno le crudeli politiche annunciate (da Lecornu, ndr) per il bilancio”.

E proprio sulla manovra finanziaria per il 2026 il premier dovrà combattere la sua prossima battaglia, che inizierà già da lunedì e si preannuncia estremamente dura. I numeri delle votazioni odierne rendono plasticamente la misura della fragilità del Lecornu bis, l’ennesimo governo di minoranza in una legislatura mai così frammentata nella storia della Cinquième République.

Jordan Bardella Marine Le Pen
Il capogruppo dei Patrioti a Strasburgo, Jordan Bardella, e la capogruppo del Rassemblement national all’Assemblée nationale, Marine Le Pen (foto: profilo X di Jordan Bardella)

L’inquilino di Matignon ha promesso che non ricorrerà all’articolo 49.3 della Costituzione – la norma permette all’esecutivo di forzare l’approvazione di una legge, bypassando il Parlamento (lo ha usato il suo predecessore Michel Barnier, esponendosi alla censura dell’Aula) – per far approvare la sua manovra da oltre 30 miliardi di euro, sostenendo di voler trovare una quadra coi partiti entro il 31 dicembre, onde scongiurare l’esercizio provvisorio.

Il prossimo bilancio dovrà servire anche a rimettere in sesto i disastrati conti pubblici della seconda economia dell’Eurozona: il deficit di Parigi si attesta attualmente sui 5,8 punti di Pil (quasi il doppio del tetto fissato da Bruxelles al 3 per cento), mentre il debito pubblico transalpino ha sfondato quota 115 per cento, il terzo dopo quello greco e italiano. Lecornu mira a un deficit al 4,7 per cento per il 2026.

L’impresa, tuttavia, sarà ardua. Le forze progressiste dell’Nfp esigono un cambio di passo netto da parte del governo e sostengono la proposta dei Socialisti di una “tassa Zucman” (dal nome dell’economista Gabriel Zucman che l’ha elaborata), cioè una patrimoniale al 2 per cento sulle fortune superiori ai 100 milioni. La misura, che interesserebbe lo 0,01 della popolazione nazionale, è però invisa al resto dell’Assemblée, dal centro macronista fino all’estrema destra lepenista. I socialdemocratici di Faure, ad ogni buon conto, hanno messo in chiaro che l’astensione di oggi non è un assegno in bianco e che aspettano il premier al varco.

Emmanuel Macron
Il presidente francese Emmanuel Macron (foto: Patrick Brown via Imagoeconomica)

Del resto, il vero bersaglio dell’Aula non è tanto Lecornu quanto ciò che rappresenta. Vale a dire il macronismo politico, ormai ampiamente ripudiato dal corpo elettorale. Lo dimostrano i risultati delle ultime consultazioni: le europee del giugno 2024 e le legislative convocate in fretta e furia da monsieur le Président nel tentativo, egregiamente fallito, di ricompattare il centro liberale e arginare l’ascesa dell’estrema destra.

Se i francesi votassero oggi, il Rn otterrebbe più del 33 per cento delle preferenze, oltre il doppio della coalizione presidenziale. Dai banchi di Lfi, intanto, Mélenchon continua a chiedere l’impeachment del capo dello Stato, che rimane barricato all’Eliseo ed esclude categoricamente di dimettersi prima della fine naturale del proprio mandato, in scadenza a primavera 2027.

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