In Italia la produttività è ferma da vent’anni, a Milano no

Ottobre 18, 2025 - 16:00
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In Italia la produttività è ferma da vent’anni, a Milano no

In Italia la produttività è ferma da vent’anni. A Milano no. La città e la sua area metropolitana rappresentano oggi il motore più efficiente del Paese. Il divario con il resto d’Italia non è un effetto del ciclo economico, ma la conseguenza di un modello che si è sedimentato nel tempo: un’economia ad alta densità di conoscenza, imprese capitalizzate, reti professionali fitte e una capacità di adattamento che altrove manca (ne abbiamo parlato in una precedente riflessione sul perché Milano sia il centro italiano delle startup).

Dal 2000 la produttività del lavoro italiana è cresciuta molto meno che in Germania, Francia o Spagna, come testimoniato dalla Banca d’Italia. Anche nell’ultimo ciclo espansivo, tra il 2019 e il 2024, l’aumento del Prodotto interno lordo è dipeso più dall’occupazione che dall’efficienza. Milano, invece, si muove in controtendenza: la sua produttività cresce, e cresce più in fretta.

Fino al 2010 Lombardia e Lazio presentavano livelli di compensazione oraria simili. Poi le traiettorie si sono separate. La Lombardia ha accelerato, trainata da Milano, e la ripresa post-crisi è stata più rapida. Il periodo 2014-2019 ha visto un miglioramento legato ai processi di ristrutturazione industriale e all’espansione dei servizi avanzati.

Secondo i dati Eurostat, tra il 2014 e il 2023 la produttività nominale del lavoro è passata da circa 86mila a 106mila euro per addetto a Milano (+23 per cento), contro i 75mila a 90mila di Roma e i 68mila a 80mila della media nazionale.

Il divario con il resto del Paese si è quindi ampliato. La pandemia ha inciso solo temporaneamente: nel triennio successivo, Milano è tornata a crescere con una pendenza più alta della media nazionale.

Non si tratta di un’eccezione temporanea. La forza di Milano deriva da una struttura produttiva orientata ai settori che, nelle economie avanzate, trainano la crescita di lungo periodo: finanza, servizi professionali, tecnologia, ricerca. Nel comparto finanziario e assicurativo la città genera 18,4 miliardi di euro, quasi il doppio di Roma; nelle attività professionali e scientifiche arriva a 24,1 miliardi.

Ma la vera leva non è solo la specializzazione: è la concentrazione di imprese “alla frontiera”, cioè nel 5 per cento più alto per produttività totale dei fattori (Tfp). Secondo la Banca d’Italia, in Italia le imprese di frontiera — pur essendo poche — contribuiscono fino all’80 per cento della crescita della produttività nei servizi e oltre la metà nella manifattura. Milano ne ospita una quota rilevante, e la sua economia è strutturalmente “frontier-friendly”: densa di capitale umano, con mercati del lavoro e finanziari che premiano la produttività.

Le imprese di frontiera non sono necessariamente le più grandi. Sono quelle più redditizie, più giovani, con tassi di investimento elevati e una struttura finanziaria più solida. Hanno meno bisogno di debito a lungo termine e più accesso a risorse interne.

In Lombardia queste imprese si innestano in un contesto in cui un terzo delle grandi aziende italiane (32,3 per cento) è concentrato, e le multinazionali — pur solo il 5 per cento delle società di capitale — generano circa metà del valore aggiunto. È una combinazione di scala e intensità tecnologica che alimenta la produttività complessiva.

Il limite, però, è che questo modello non si diffonde. Come mostra il report della Banca d’Italia, le imprese di frontiera tendono a restare tali, ma l’effetto di trascinamento verso il resto del sistema è debole. Anche a Milano, l’innovazione è concentrata: il divario tra le imprese alla frontiera e l’impresa mediana si amplia. Il risultato è una produttività che cresce per vertice, non per diffusione.

Esiste davvero un “modello Milano”?
La domanda è se questo modello sia replicabile altrove. Proprio oggi in cui la crescita italiana è ferma, e le ultime tre leggi di bilancio non hanno portato misure concrete in questa direzione.

In parte sì, se lo si intende come ecosistema che combina capitale umano, densità imprenditoriale e connessioni tra imprese, università e finanza.

In parte no, se si cerca una ricetta trasferibile “in blocco” altrove. La produttività non è esportabile come una politica pubblica: nasce da un contesto che unisce infrastrutture, istituzioni locali, mercato e cultura economica.

Tuttavia, alcune condizioni sono replicabili: rafforzare le reti tra imprese e ricerca, favorire la crescita dimensionale, sostenere la mobilità del capitale umano, migliorare l’accesso ai servizi ad alta intensità di conoscenza.

Sono leve che possono rendere anche altre aree italiane più “frontier-ready”, riducendo il rischio che Milano resti un’isola produttiva in un Paese a bassa crescita.

Perché se la produttività di Milano resta isolata, il rischio è duplice: una crescita polarizzata e un Paese che si abitua a convivere con le sue distanze interne. E quando la distanza diventa struttura, non è più solo un problema economico: è una questione di geografia del futuro.

*Elia Bidut è fellow del think tank Tortuga, dove studia e analizza i temi dell’innovazione e produttività. Ha esperienze in varie startup e scaleup nazionali e internazionali.

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