Michele Morello, il giudice del caso Tortora esempio di vera indipendenza dalla Procura

Non so se l’Associazione nazionale magistrati, almeno la sezione campana, ricorderà come merita la figura di quello straordinario magistrato che fu Michele Morello, oggi scomparso. Tenderei ad escluderlo, ma sarei davvero felice di essere smentito. Certo, dovrebbe farlo. Perché in un contesto nel quale ogni occasione è buona per invocare, con le ciglia aggrottate dalla preoccupazione o dallo sdegno, la salvaguardia della indipendenza della magistratura, pochi giudici possono vantare una storia personale così straordinariamente significativa di cosa sia davvero l’indipendenza del giudice.
Michele Morello fu infatti il giudice relatore ed estensore del collegio di Corte di Appello di Napoli assegnatario di quello storico procedimento penale, il cui presidente Rocco pronunziò le fatidiche parole “assolve l’imputato Tortora Enzo Claudio Marcello” da tutte le deliranti imputazioni che ne avevano determinato l’arresto, la lunga detenzione e la condanna in primo grado alla pena di dieci anni di reclusione (come si confà, perbacco, ad un “cinico mercante di morte” quale Enzo era stato indecentemente qualificato). Quel giudice, insieme ovviamente agli altri due colleghi componenti il collegio, mise così fine alla più assurda, surreale, scandalosa e -per molti versi- ancora inspiegabile persecuzione giudiziaria di una persona la cui innocenza era conclamata ed abbacinante sin dalle primissime battute dell’inchiesta. Al tempo stesso, egli -insieme ai suoi colleghi del collegio, non lo ripeterò più- riscattò l’immagine e la dignità della intera magistratura italiana.
Perché oggi si è inevitabilmente persa la misura, dopo i tanti anni trascorsi, di cosa possa aver davvero significato pronunziare un giudizio di assoluzione in quel “processo del secolo”: ma chi di noi ne fu testimone, può ancora ricordarlo. Poche volte è capitato, in un processo penale, che la colpevolezza o l’innocenza di un imputato assumesse in modo così clamoroso il significato di assolvere o condannare una intera indagine, e dunque l’operato della Procura di Napoli, della Polizia Giudiziaria impegnata in quella indagine, e -arrivo a dire- dell’intero ceto magistratuale del Paese. Perché con la clamorosa candidatura pannelliana di Enzo al Parlamento Europeo, la sua plebiscitaria elezione, le sue coraggiose dimissioni dal Parlamento per non usufruire della immunità, in nome di una innocenza orgogliosamente gridata contro un blocco ostile e compatto creatosi tra magistratura e mezzi di informazione, le sorti di quell’imputato assunsero inevitabilmente un significato simbolico che andava ben oltre la pur complessa vicenda processuale. Ed infatti la magistratura associata -con la sola eccezione, occorre ricordarlo, di Magistratura democratica- si schierò compatta nella incondizionata difesa corporativa dei Pubblici ministeri e del Giudice istruttore (siamo nel 1986, ancora in pieno rito inquisitorio), aumentando così la micidiale pressione sulla libera determinazione dei giudici impegnati nei vari gradi di giudizio. Basti un segnale, per tutti: il Csm, nonostante l’assoluzione (confermata definitivamente dalla Cassazione) promosse con encomio tutti i magistrati dell’accusa e del primo grado.
Un atto di sfacciata tracotanza, che credo basti a dare la misura della durezza inedita di quello scontro. Il merito fu dunque del Collegio, ma Michele Morello fu l’estensore di quella storica sentenza. Un estensore lucidissimo, dettagliato fino alle minuzie, implacabile nello sbugiardare, una per una, le autentiche assurdità di quell’accusa. “Sarebbe bastato”: questa mi pare ora di ricordare sia stata la ripetuta locuzione utilizzata dal dottor Morello. “Sarebbe bastato” verificare che il pentito Pandico aveva precedenti specifici per calunnia, con connotazioni psicopatologiche evidenziate in tempi non sospetti dai giudici che lo avevano condannato; “sarebbe bastato” verificare che, quando il pentito Melluso disse di aver trafficato con Tortora, in realtà era ristretto in carcere da qualche anno; “sarebbe bastato” verificare che la restante dozzina di pentiti si esprimevano tutti con le stesse frasi, le stesse parole, riferendo le medesime circostanze, dopo lungo, scandaloso parcheggio collettivo nella famigerata Caserma Pastrengo dei Carabinieri; e così di seguito.
Una prosa stringente, implacabile, durissima, un dettaglio informativo impressionante; il disvelamento perfino spietato che, sissignore, il Re era nudo. Ora, avete la più vaga idea di quali qualità professionali, umane, morali occorrano ad un giudice per resistere alla pressione micidiale, al peso di una decisione le cui implicazioni politiche erano evidentissime nella loro enorme portata? E non a caso quel collegio, ma specificamente il giudice relatore ed estensore della sentenza Michele Morello, fu fatto segno di attacchi furibondi dai suoi colleghi (ricordo in particolare una micidiale, velenosissima intervista di uno dei due Pm all’indomani della sentenza, a tutta pagina sul Mattino di Napoli). Delle decisioni del Csm ho già detto, mentre la sezione napoletana di magistratura Democratica, addirittura convocando una conferenza stampa, cercò di aprire -inutilmente purtroppo- una dura riflessione autocritica nella magistratura italiana.
Insomma, uno scandalo, nel senso davvero più evangelico del termine. L’affermazione di una innocenza, poi addirittura asseverata, molti anni dopo, dalle dichiarazioni di molti di quei pentiti, Melluso in testa (“avevamo compreso che accusare Tortora ci avrebbe garantito vantaggi e sconti nella esecuzione della pena”). Ecco perché temo che saremo in pochi a rendere omaggio a questo grande magistrato, esempio fulgido della sola e vera indipendenza che conta: quella del giudice dagli uffici di Procura. Le sia lieve la terra, consigliere Michele Morello.
Qual è la tua reazione?






