Moda sostenibile: Milano sperimenta un protocollo per legalità e trasparenza nelle filiere


Un protocollo firmato a Milano coinvolge istituzioni, associazioni e imprese per contrastare sfruttamento ed evasione fiscale nella moda. L’iniziativa si inserisce in un quadro europeo e internazionale di regole sulla due diligence, ma solleva interrogativi sulla sua reale efficacia
Dopo i casi di cronaca che hanno evidenziato fenomeni di sfruttamento e lavoro nero nelle subforniture di grandi marchi della moda, cresce l’attenzione sul versante sociale della sostenibilità.
Accanto ai temi già consolidati – economia circolare, ecodesign, chimica verde – emerge con urgenza la necessità di tutelare i diritti dei lavoratori, ponendo fine a pratiche di caporalato e dumping contrattuale.
Il quadro normativo europeo e internazionale
La Commissione europea ha approvato la Direttiva sulla Due Diligence per la Sostenibilità aziendale (Csddd), che impone alle imprese l’obbligo di monitorare e prevenire gli impatti negativi su ambiente e diritti umani lungo le proprie catene di fornitura.
Con il pacchetto Omnibus, tuttavia, l’applicazione è stata rinviata al 2028 e limitata alle aziende con oltre mille dipendenti e ai soli fornitori diretti.
La Francia ha aperto la strada nel 2017 con la Legge sul Dovere di Vigilanza, seguita dalla Germania nel 2023 con la Supply Chain Due Diligence Act (Lksg). Trattandosi di filiere globali, tali strumenti acquistano forza solo se integrati in una cornice internazionale.
In Italia, il 21 maggio 2025 è stato sottoscritto in Prefettura a Milano un protocollo per la legalità nel settore moda, con la partecipazione di Regione Lombardia, Tribunale, Procura, Carabinieri, Ispettorato del Lavoro, Politecnico di Milano, associazioni di categoria e sindacati.
L’obiettivo dichiarato è garantire trasparenza lungo tutta la supply chain, tutelare i lavoratori e promuovere l’applicazione dei contratti collettivi. Per questo è prevista la creazione di una Piattaforma di filiera: un database condiviso che raccoglierà informazioni sugli operatori economici, consentendo ai brand di consultare una green list digitale delle imprese aderenti.
Le aziende che parteciperanno potranno ricevere un attestato semestrale di trasparenza e un bollino verde.
Obblighi e responsabilità del protocollo di Milano
Il protocollo introduce clausole di legalità nei contratti di fornitura e l’obbligo, per i fornitori, di comunicare eventuali subappalti. Ai brand viene richiesto di monitorare periodicamente la propria catena di fornitura anche tramite audit e di condividere con il tavolo di monitoraggio i dati raccolti, inclusi eventuali rilievi e azioni correttive.
Il sistema, pur con adesione volontaria, tende a trasformarsi in vincolo di fatto per le imprese che operano con grandi committenti. L’iniziativa lombarda segna un passo rilevante, ma suscita dubbi.
La dimensione regionale appare limitata rispetto a filiere che si estendono dall’Asia all’America Latina. Inoltre, il ruolo attribuito ai brand come segnalatori anonimi di anomalie appare distante da una logica di miglioramento continuo e di responsabilizzazione reciproca.
Va ricordato che spesso sono proprio le pressioni esercitate dai grandi marchi – in termini di prezzi e tempi di consegna – a generare ricorso a subfornitori opachi e difficili da controllare.
Il protocollo non si colloca in un vuoto normativo. Già dagli anni Novanta sono disponibili standard di riferimento come la Sa 8000 sulla gestione equa delle risorse umane e la Iso 26000 sulla responsabilità sociale.
Inoltre, schemi di certificazione ambientale quali Ecolabel, Bluesign, Fsc e Pefc integrano criteri sociali, mentre programmi come Oeko-Tex SteP Responsible Business e BCorp pongono attenzione crescente alla sostenibilità sociale.
Molte imprese hanno introdotto propri codici etici e presentano bilanci di sostenibilità che documentano monitoraggi sulla filiera, anche al di fuori degli obblighi normativi.
La sperimentazione milanese potrebbe costituire un laboratorio per un futuro protocollo nazionale, capace di rafforzare la credibilità del settore moda italiano in chiave internazionale.
La sfida sarà conciliare rigore normativo e strumenti digitali con una reale cultura della sostenibilità sociale, capace di incidere sui modelli produttivi e sulle pratiche commerciali dei grandi brand.
Ecco, tuttavia, qualche domanda sulla necessità di queste nuove regolamentazioni:
- le aziende hanno davvero bisogno di un altro protocollo, per lo più locale?
- che facciamo con le certificazioni e i codici messi a punto e adottati negli anni dalle imprese?
- non c’è il rischio di un ulteriore appesantimento burocratico, in una fase in cui si auspicano semplificazioni e accelerazioni nella capacità di risposta del mercato?
- davvero vogliamo far ricadere sulle imprese l’onere di un controllo della legalità che compete alle istituzioni?
Crediti immagine: Depositphotos
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