Quando la Storia ha fame: il pane non può aspettare


Nel Salone Estense del Comune di Varese, pieno di persone in ogni suo spazio, è andata in scena l’anteprima nazionale di Il pane non può aspettare, il nuovo romanzo di Pier Vittorio Buffa. Un incontro che ha unito memoria locale e sguardo civile, a partire da una domanda semplice e vertiginosa: cosa passa nella testa di ragazze e ragazzi tra i 18 e i 23 anni quando la Storia, all’improvviso, li mette davanti a scelte che non possono aspettare?
Hanno aperto la serata i saluti istituzionali: il sindaco Davide Galimberti ha sottolineato la centralità — oggi di nuovo attualissima — del tema guerra nel dibattito pubblico e l’importanza di «momenti di riflessione che aiutino la saggezza di chi decide». Con lui l’assessore Enzo Laforgia, il professor Gianmarco Gaspari e Silvia Sartorio (vice sindaca e assessora alla cultura di Besozzo), chiamata a dare voce a brani scelti del libro.
Un romanzo corale, una lente su Cabiaglio
Buffa torna nei luoghi della Valcuvia dopo La casa dell’uva fragola, e sceglie Castello Cabiaglio come lente di ingrandimento per leggere gli anni peggiori della Seconda guerra mondiale. Un prologo datato “prima domenica di settembre 1938” apre il sipario; poi tre parti attraversano 1943, 1944, 1945. È un romanzo corale: non solo i protagonisti principali, ma un intero paese da inseguire, tessendo biografie, paure, scarti, coraggio.
Nelle letture di Sartorio, la sera dell’8 settembre 1943 deflagra in piazza come un’onda: urla, abbracci, la gioia improvvisa dell’armistizio che in poche ore rovescia in smarrimento. L’Italia “allo sbando”, le istituzioni che crollano, ordini che non arrivano. La grande storia — quella delle date nei manuali — si fa storia locale, vissuta casa per casa: il postino che cambia ogni giorno il giro per recapitare prima le cartoline “sono ancora vivo”; le famiglie divise tra attesa e paura; le scelte che non sono slogan, ma pane quotidiano.
A Cabiaglio da Garibaldi alla Grande guerra attraverso il romanzo di Pier Vittorio Buffa
Scelte senza rete: patria, coscienza, sopravvivenza
Uno dei nervi scoperti del romanzo è la parola “patria”. Nel dialogo tra Innocenta — figura potentissima, donna del forno, segnata dall’omicidio impunito del marito — e un giovane che valuta di arruolarsi con i repubblichini nella Guardia Nazionale Repubblicana, la patria non è un vessillo astratto: è la misura concreta del giusto e dell’ingiusto, della vita e della morte. «Il mondo sbagliato è quello là», sintetizza Buffa commentando la linearità morale di chi non elabora teorie, ma riconosce l’occupazione, la violenza, la sopraffazione.
Il libro segue un gruppo di sette amici — la “banda del fischio” — che, travolti dall’8 settembre, imboccano strade diverse e persino opposte: c’è chi sale in montagna tra i partigiani, chi resta, chi si arruola, chi diserta. La materia è complessa, lontana da ogni manicheismo: Buffa evita aggettivi e retorica, affida il giudizio ai fatti e alla loro ostinata concretezza.
La frontiera e i nomi della memoria
Un capitolo di grande forza narrativa porta il lettore al ponte di Ponte Tresa, tra Italia e Svizzera. Una piccola folla tenta il passaggio; una guardia di finanza minaccia di sparare; un uomo con l’impermeabile chiaro — riconosciuto nel Calogero Marrone di piazza Montegrappa — estrae la pistola non per offendere, ma per difendere vite in fuga: «Bisogna fare presto per salvare chi, con l’arrivo dei tedeschi, rischia la vita». È una scena che restituisce il respiro morale di persone comuni capaci di gesti enormi.
Nel romanzo affiorano topografie e figure care alla memoria varesina: la battaglia di Monte San Martino, l’eco dei bombardamenti su Milano, botteghe e cognomi che ancora dicono qualcosa a chi abita queste strade. La narrativa di Buffa, ricordano i relatori, è sorretta da una documentazione rigorosa: «dire realistico sarebbe riduttivo — osserva Gaspari — perché qui c’è una dimensione documentaria che cattura anche chi viene da fuori».

Il metodo di un giornalista, la libertà del romanziere
«È difficile non essere quello che si è», ammette Buffa quando gli chiedono se nel libro “si sente” il giornalista. Quarant’anni di mestiere e tanta non-fiction alle spalle (dai crimini nazifascisti al terrorismo) si riflettono nella scansione per date e nella precisione dei riferimenti. Ma la pagina è, insieme, romanzo: scene, dialoghi, personaggi che respirano. «Faccio fatica a scrivere di pura fantasia — confessa — per me i dati reali sono la piattaforma da cui spingere lo sguardo “oltre”».
Questa postura si traduce in una scrittura sobria, che toglie anziché aggiungere: pochi aggettivi, zero proclami. È nel dettaglio — un ditale sfilato in fretta, la suola di gomma del curato che non fa rumore, un carretto in piazza che diventa palco — che la storia trova verità.
Perché «il pane non può aspettare»
Il titolo è una chiave etica e narrativa. Nelle parole del sindaco di Castello Cabiaglio Marco Galbiati (che conosce alcuni dei personaggi reali ricordati dal libro) sta il senso più urgente del romanzo: ci sono momenti in cui decidere è pane — non può aspettare, perché dall’attesa dipendono vite, libertà, dignità. Una frase che si rifrange sui nostri giorni, quando il vocabolario della guerra torna a bussare alle porte d’Europa e ciascuno è chiamato a un alfabeto minimo di responsabilità.
Alla fine, l’applauso più lungo è per l’autore e — per sua esplicita richiesta — per i figli e nipoti dei protagonisti reali presenti in sala: nomi e volti che hanno aiutato a ricostruire storie, a riannodare fili, a non disperdere ciò che è accaduto. Perché se la grande storia si studia, la storia si vive. E a Castello Cabiaglio, in quegli anni, si è vissuta fino in fondo.
Il pane non può aspettare è questo: un invito a guardare la Storia dalla soglia di casa, dove la scelta non è un’idea astratta ma una pagnotta calda sul tavolo — da dividere, oggi come ieri, prima che si raffreddi.
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