Uberti: «La sinodalità nasce dalla capacità di un ascolto reale e reciproco»


Per la Chiesa ambrosiana la sinodalità diventa sempre più una sfida e una risorsa, uno stile da assumere a tutti i livelli, a cominciare dalle parrocchie e dalle Comunità pastorali. Ci crede e ci investe davvero monsignor Bortolo Uberti, da un anno Prevosto di Lecco, responsabile della Comunità pastorale Madonna del Rosario di Lecco, che comprende tre parrocchie (San Nicolò, San Materno a Pescarenico e San Carlo al Porto a Malgrate) e il Santuario Nostra Signora della Vittoria, luogo molto frequentato per la preghiera, le confessioni e l’accompagnamento spirituale. «Da una parte la parola sinodalità, tipica del vocabolario ecclesiastico, genera una certa distanza e timore, dall’altra la parola fraternità rischia di essere molto abusata, per cui tutto è fraternità», riflette Uberti, che sta già traducendo in concreto quanto l’Arcivescovo descrive nella Proposta pastorale 2025-2026.
Quanti sono i preti a Lecco?
Nella Comunità pastorale sono 7, mentre i parroci in città sono 16, più i sacerdoti ricoverati in Rsa. I preti sono tanti e non è facile in due ore di incontro mensile decanale creare fraternità. Affrontiamo i temi all’ordine del giorno, ognuno dice la sua e ci ascoltiamo amichevolmente, ma vivere la fraternità significa mettersi in gioco personalmente, decidere insieme: questo richiede tempo e pazienza. La diaconia della Comunità pastorale si ritrova invece tutte le settimane pregando, confrontandosi e pranzando insieme.
Lei è parroco e responsabile di Comunità pastorale. Come interpreta e vive la sinodalità?
La sinodalità consiste nella capacità di ascolto reciproco tra preti e laici, ma l’ascolto è vero nella misura in cui nasce dalla stima che si ha dell’altro e che porta alla condivisione. Però penso che non sia sufficiente la buona volontà nell’ambito delle relazioni, sia con i preti, sia con i laici. Occorre tessere nel quotidiano relazioni di ascolto, stima e condivisione. La fraternità, lo vedo con i preti della mia Comunità pastorale, passa dalla condivisione del pranzo, che ci permette di parlare delle situazioni quotidiane, dalla preghiera insieme, da una chiacchierata, da un caffè… E questo richiede tempo. Ma c’è un’altra faccia della medaglia.
Quale?
Quella della conflittualità. Sappiamo che la fraternità si misura sempre con la conflittualità. Questo vuol dire che dobbiamo misurarci anche con i conflitti, le diversità, le divergenze. Vivere la fraternità non vuol dire che non si deve discutere più e che non possono sorgere incomprensioni. La fraternità passa anche dal saper gestire i conflitti, dal parlarne schiettamente e dal risolverli. Siamo fratelli anche quando la pensiamo diversamente, ma questo non ci impedisce di trovare una linea comune: pregare insieme, mangiare insieme, trascorrere del tempo insieme.
Cosa vuol dire che il potere del sacerdote deve essere vissuto come «servizio alla comunione», come scrive l’Arcivescovo nella Proposta pastorale?
Questa è una verità grande. Dobbiamo liberarci dall’idea del potere. Io parto dalla consapevolezza che niente qui è mio: non è mia la casa, la chiesa, le strutture, le persone. Io sono chiamato a rispondere di questa comunità che ho trovato, che mi è stata consegnata, ma non è mia e so che tra nove anni la restituirò. La logica del ministero è una logica del dono, non del potere, non ho fatto nulla per meritarmi questa realtà, altri vi hanno lavorato e ci vivono, io non mi porterò via niente. L’unico potere che ho è quello della responsabilità. Questa libertà profonda, interiore, spirituale è la libertà della responsabilità che mi fa dare tutto per ciò che ho ricevuto e che poi restituisco.
L’Arcivescovo dice che è necessaria una riforma del clero «per interpretare il ministero in modo più adatto alla nostra situazione e rendere più sostenibile la vita del prete». Cosa ne pensa?
La riforma del clero deve aiutarci a stare dentro la situazione, leggerla, interpretarla. Non dobbiamo scappare di fronte alle domande delle persone, perché sono quelle reali e ci interpellano. Riformare il clero vuol dire diventare preti capaci di avere cura delle persone, con i loro drammi, le loro inquietudini, le loro sfide di tutti i giorni. Penso al fine vita, all’accanimento terapeutico, ai tanti figli con genitori anziani, alle questioni sul genere, sulla realtà giovanile, sui cambiamenti della società. Le città sono in continua trasformazione e oggi le domande fondamentali sono la casa, il lavoro, il necessario per vivere, ma noi non dobbiamo cercare teorie, neanche pastorali, piuttosto dobbiamo imparare a stare vicino, con i nostri limiti, le nostre fragilità, i nostri silenzi. Io mi domando: come posso servire questa Chiesa, qui, adesso, anche di fronte alle questioni amministrative, gestionali, rispetto alle strutture, all’economia? Come posso prendermi cura di tutte le persone, non soltanto di chi frequenta la Chiesa, ma anche di chi passa, che incontro in maniera occasionale, nelle ricorrenze pubbliche, istituzionali e che non vedrò più? Non c’è solo la cura dei fedeli, la mia preoccupazione è per tutti, a livello cittadino, come Prevosto di Lecco. Non interpreto il mio ruolo come una maschera o un vestito, ma come servizio alla città. Come prete, quali parole evangeliche ho da dire a tutti quelli che incontro? Questo mi chiede di continuare a cambiare, studiare, leggere, approfondire le questioni, mi chiede di essere libero da un ruolo e di essere autentico come persona, come cristiano, come pastore.
Qual è la tua reazione?






