Ben Peggio: da Matera a Bologna, tra cantaut-urlato e generazione in bilico | Ben Peggio X Indie Talks

Di Mariangela Pia Caputo
“Matera-Bologna” tratta del viaggio personale e artistico che accompagna da quasi dieci anni a questa parte Fabrizio, in arte Ben Peggio. Classe 1995, voce e già penna dei Moregré, gruppo emo-punk formatosi a Matera nel 2018, Ben Peggio possiede uno stile che non va a pile.
Il suo personalissimo genere, che lui stesso definisce cantaut-urlato, non ha nulla a che vedere con melismi od ornamenti musicali particolari: la sua musica è diretta, fulminea, potente come i generi dai quali attinge (rock, indie, emo); senza però sporgersi troppo, senza cadere nel refrain banale.
I suoi brani raccontano le realtà quotidiane che si celano dietro le vite dei ventenni e trentenni di oggi. Ci scruta e ci studia, analizzandosi a sua volta, bilanciando sempre quella giusta dose di nostalgia e ironia che serve a non soccombere.
«Non si è mai davvero soli, e a volte basta rallentare per accorgersi che le piccole cose sono quelle per cui viviamo», afferma mentre gira l’ultima sigaretta prima di rivolgerci i saluti.
Il suo album di debutto “Non sei come il mio cane”, in uscita il 10 ottobre 2025, è un disco che proviene da notti agitate — quelle in cui chiudere gli occhi sembra quasi un atto di violenza, e restare svegli diventa un gesto sacro, inevitabile.
Le tracce già svelate, “Che bella casa” (2025) e “Giorgia” (2025) brillano di una luce intensa. E lasciate che vi dia un consiglio: “Che bella casa” necessita di una sala d’ascolto diversa; un posto che vada oltre le quattro mura: che sia un giardino, un tetto, uno spazio arioso che dia possibilità ai pensieri di non toccarsi né confondersi.
Il sound è fresco, gioviale, apparentemente quasi scherzoso. Il riff della chitarra ti invita a rilasciare endorfine; l’«Ehi come stai» iniziale ti tenta addirittura nel voler rispondere. È una conversazione tra due poli che però non conosce conclusioni, solo incertezze e dubbi verso il futuro: «Ti dovrai laureare per lavorare in un bar e capire la vita ed il prezzo che ha».
Il testo è inoltre una critica ai valori odierni: «Che bella casa, che belle auto, che bei bambini; ma che bello il tuo giardino, il tuo lavoro, i tuoi occhi, le tue mani, il tuo sorriso», e a quel mondo da copertina che, in questa gara chiamata vita, corre sempre un passo avanti a te.
Con “Giorgia”, Ben Peggio entra nei meandri dell’animo umano. È raccontato il folle amore di Tiziana, una poetessa che a Bologna ricorderanno in tanti, per Giorgia. L’eco strozzato del suo nome, ripetuto ad oltranza per le vie della città, si tratteneva nelle sue mura; mura che tutt’oggi conservano confessioni di amori in corso e di umori in bilico.
Il pezzo mette in risalto tematiche come la solitudine, la perdita, l’ossessione: «Ho accarezzato il vento per capire se è vero quello che sogno, e sogno davvero; e quando mi sveglio, mi sveglio da solo. Ti odio, ti odio, ti odio, ti odio».
L’amore è osservato con reale concretezza; non vi sono abbellimenti né retoriche di bassa qualità, solo la voglia di raccontare ciò che è, grazie anche alla penna di Mivergogno, artista marchigiano che accompagna la parte finale di “Giorgia” musicata con ritmiche dolci e fiduciose, negli aprili che verranno e nell’amore che ci salverà.
Con Vincenzo Bertugno (chitarra e flauto traverso), legato artisticamente a Ben Peggio dagli albori — la sua ecletticità è stata visibile sin dal progetto con i Moregré —, Sandro Della Lunga (batteria) e Simone Laurino (tastiere, mix e master), l’album è un incastro perfetto di coincidenze, sensazioni, incontri di vita, come quello con Fleurmicol, cantautrice elegante e mai scontata, e Nico Arezzo, artista moderno e creativo con il quale Ben Peggio firma il suo nuovo singolo, uscito il 26 settembre 2025 e intitolato “Vestiti bene o male”.
Il pezzo invita a lasciarsi andare, a vivere con naturalezza le cose della vita senza preoccuparsi dell’apparenza. Il virtuosismo dei due si sposa bene con l’anima funky e indie-rock del brano che culmina in un ritornello dal gusto nubiloso: «I fiori che ti piacciono non c’erano dal fioraio, i fiori che ti piacciono amore, non li conosco».
Ben Peggio X Indie Talks
Nella copertina del disco è ritratto un cane e anche lo stesso titolo dell’album rimanda alla sua presenza. Per te, che correlazione c’è tra la solitudine che investe la nostra generazione e quella cucita addosso alla figura del cane?
Il cane, per me, rappresenta qualcosa di romantico, nostalgico e misterioso – che poi sono le emozioni che cerco di trasmettere con la mia musica. Questo legame lo devo a mio zio Frenk: è stato lui a trasmettermi l’amore per i cani e a farmi scoprire il cantautorato italiano: da De André a Battisti, passando per Guccini.
Lui è una figura che ammiro molto: solitario ma allo stesso tempo l’anima della festa; nostalgico ma capace di leggerezza, romantico ma libero. Incarna quella dualità che ritrovo anche nella figura del cane e in me stesso.
Credo che oggi più che mai abbiamo bisogno di una via di fuga dal mondo che ci siamo costruiti, fatto di approvazione continua, benessere ostentato e ritmi che ci allontanano da noi stessi. Il cane, in tutto questo, è un ritorno alla realtà. È una pausa dal rumore, un’occasione per prendersi cura di qualcuno che non chiede nulla, se non attenzione. Ecco perché lo vedo come un antidoto all’alienazione dei nostri tempi. Come tante altre cose vere e concrete, può riportarci con i piedi per terra e rimetterci in contatto con ciò che conta davvero.
Vivi in città ma sogni la campagna. Come mai è necessario, ad un certo punto, muoversi in spazi indefiniti?
Credo che in fondo siamo tutti alla costante ricerca di noi stessi. C’è chi si cerca in una discoteca, chi in un ristorante affollato, chi dentro a un bar. Io, dopo tanti anni vissuti nel centro di Bologna, sento il bisogno di trovarmi altrove: nel silenzio, dove ci sono poche persone e tanto verde.
Vivere in città è stimolante, ma spesso finisce per disconnetterti da te stesso. La campagna, o comunque uno spazio più “indefinito”, meno strutturato, ti dà modo di rallentare, di ascoltarti, di respirare davvero.
E non credo di essere l’unico a sentirlo: mi sembra che sempre più persone stiano guardando verso la periferia, verso luoghi più autentici e meno saturi. È una forma di riconnessione, soprattutto con la natura ma anche con una parte di noi che in città spesso resta sepolta sotto il rumore e la fretta.
In una breve intervista del 1980, il cantautore genovese Paolo Conte riflette su ciò che orienta le nostre vite soffermandosi sull’importanza di chi ci ha fatto vedere per la prima volta la stella polare. Chi o cosa ha scatenato in te quest’esigenza di mettere nero su bianco le tue sensazioni?
Di stelle polari nella mia vita ne ho avute diverse: mio zio Frenk, i miei genitori, Cinzia, il mio primo amore. Ognuno di loro, in momenti diversi, mi ha indicato una direzione, mi hanno acceso qualcosa dentro.
Ma se penso alla prima stella polare, quella che davvero ha dato inizio a tutto, la vedo chiaramente: era nel baule della macchina di mio padre. Un cd di Nina Simone: non ricordo neanche quale album fosse. So solo che da quel momento è cambiato tutto. È stato come aprire una porta su un mondo nuovo. Lì ho capito che la musica poteva essere una casa, un rifugio, un linguaggio.
Ti si palesa prima la musica o il testo?
Direi che per me viene prima il testo. O meglio, è lì che nasce il bisogno. Scrivere è la mia vera necessità, è il modo in cui provo a dare forma a quello che sento. La musica, poi, è il mezzo magico attraverso cui quel testo prende vita, respira, vibra.
Detto questo, nella pratica le due cose nascono spesso insieme. Quando scrivo, lo faccio suonando. C’è una sorta di equilibrio istintivo tra parole e melodia che si costruisce in tempo reale. È come se una aiutasse a tirare fuori l’altra.
Ma se devo indicare da dove parte davvero tutto, direi sempre dal bisogno di dire qualcosa, di raccontarmi — dunque dal testo.
Qual è il criterio che ti ha portato a scegliere come compagni di viaggio per i tuoi feat artisti come Mivergogno, Fleurmicol, Nico Arezzo?
Senza ombra di dubbio la naturalezza del rapporto che intercorre tra di noi, oltre al grande rispetto che nutriamo vicendevolmente.
Mivergogno è stato l’artista che mi ha ispirato musicalmente di più. La visione di un suo live è stata folgorazione pura per me. Sapevo di aver dentro quelle sonorità da tempi indefiniti.
Fleurmicol è la voce femminile che canta la consapevolezza di una generazione. Il pezzo che ci lega è intimo e sincero, esattamente come la nostra connessione.
La musica di Nico Arezzo rispecchia invece le influenze di altri mondi: qualcosa di innovativo, diverso, quasi necessario, utile alla mia crescita artistica e personale.
Senza trucco né inganno, i tuoi testi sono il riflesso di una generazione che si affaccia alla vita adulta senza però un chiaro manuale d’istruzione. In un mondo che è sempre più travolgente, perché a volte è necessario rallentare più che accelerare?
Credo che la cosa davvero importante sia essere pronti ad andare forte e ad andare piano. Non ho nulla contro la corsa, contro chi accelera per inseguire qualcosa. Ma penso sia sbagliato sentirsi inadeguati se ci si accorge che quel ritmo non è il proprio.
Viviamo in un mondo che spinge costantemente verso il fare, il produrre, il dimostrare. Ma a volte, per non perderci, serve proprio il contrario: rallentare. Fermarsi un attimo e ascoltarsi.
Dovremmo prenderci più cura di noi stessi e degli altri, e soprattutto imparare ad essere presenti nel momento, invece di vivere sempre proiettati nel futuro o nel confronto con ciò che fanno gli altri. È lì che, secondo me, si gioca la vera consapevolezza.
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