Disturbi neurologici funzionali: curabili ma invisibili, la SIN chiede un cambio di paradigma


Ritardi diagnostici, costi evitabili e pazienti invisibili: i disturbi neurologici funzionali rappresentano una sfida concreta per il Servizio Sanitario Nazionale. Serve una rete di cura dedicata e riconosciuta. La Società Italiana di Neurologia chiede al Ministero della Salute di inserire i DNF nei percorsi ufficiali del SSN: Non di tratta solo di medicina, ma di giustizia sanitaria.
I disturbi neurologici funzionali (DNF) che includono i disturbi motori funzionali (FMD) e le crisi psicogene non epilettiche (PNES), rappresentano una delle attuali sfide per la neurologia contemporanea, sia in ambito clinico che organizzativo.
Nell’ampio spettro di questi disturbi rientrano: crisi non epilettiche, disturbi sensitivi, visivi e del dolore, e si caratterizzano per sintomi quali tremore, paresi, distonia, alterazioni della marcia, mioclono e disturbi facciali, non attribuibili a lesioni cerebrali evidenti, ma legati a disfunzioni del funzionamento neurologico. Nonostante l’assenza di danni strutturali, i DNF possono compromettere gravemente la qualità della vita e la capacità lavorativa, al pari di patologie neurologiche degenerative.
“È necessario superare l’idea che questi disturbi siano volontari o legati esclusivamente a fattori psicologici – spiega il Professor Michele Tinazzi, Associato di Neurologia presso il Dipartimento di Scienze Neurologiche dell’Università di Verona e Responsabile della Struttura “Centro Malattia di Parkinson e Disordini del Movimento” – Oggi sappiamo che si tratta di disfunzioni reali, con basi neurobiologiche documentate, che richiedono competenze specifiche e un approccio multidisciplinare”.
Proprio perché non riconducibili a danni strutturali, i disturbi funzionali hanno un potenziale di recupero che li rende, almeno in teoria, reversibili.
Questo dato rappresenta un paradosso clinico: nonostante l’esistenza di approcci efficaci, questi disturbi continuano a essere diagnosticati in ritardo e trattati in modo frammentario, con gravi conseguenze per i pazienti e un considerevole aggravio per il Sistema Sanitario Nazionale.
La diagnosi arriva in media dopo sei anni dall’esordio dei sintomi, durante i quali il paziente attraversa numerosi consulti specialistici, diagnosi errate e trattamenti inefficaci.
Questo fenomeno ha un costo elevato: secondo una stima condotta presso il Centro Regionale Specializzato per la Malattia di Parkinson e Disturbi del Movimento dell’AOUI di Verona, un singolo paziente può generare una spesa complessiva di oltre 13.000 euro prima di ricevere la diagnosi corretta, di cui circa 9.000 a carico del Sistema Sanitario Regionale.
“Un elemento chiave nella gestione di questi disturbi – continua il Professor Giovanni De Fazio, Ordinario di Neurologia presso l’Università degli Studi di Bari – è la diagnosi, che deve basarsi su segni clinici positivi, coerenti e riproducibili, come previsto dai criteri diagnostici più aggiornati. Tuttavia, un’indagine pubblicata di recente, condotta su neurologi italiani ha rivelato che, sebbene i clinici più esperti tendano a utilizzare più frequentemente questi segni, molti strumenti diagnostici fondamentali rimangono sottoutilizzati nella pratica quotidiana, soprattutto per quanto riguarda i disturbi motori funzionali (FMD). Al contrario, i segni clinici delle crisi non epilettiche (PNES) risultano essere più familiari, probabilmente grazie alla più lunga tradizione diagnostica associata all’uso dell’elettroencefalogramma (EEG)”. Questa disparità sottolinea la necessità di una formazione più mirata, soprattutto per i neurologi generali e i giovani clinici”.
L’indagine ha, inoltre, messo in luce come le strategie di comunicazione della diagnosi siano generalmente condivise tra le diverse sottospecialità neurologiche, ma appaiano ancora poco strutturate.
Negli ultimi anni, la ricerca scientifica ha compiuto importanti passi avanti nella comprensione dei disturbi funzionali del movimento, soprattutto grazie agli studi di neuroimaging, che hanno evidenziato alterazioni in specifiche aree cerebrali coinvolte nel controllo motorio e nella consapevolezza dell’azione.
Questi risultati hanno definitivamente smentito l’idea, ormai superata, che i sintomi siano frutto di simulazione.
È oggi ampiamente riconosciuto che questi si manifestano in modo del tutto involontario, come conseguenza di una dissociazione tra l’intenzione di muoversi e la percezione del controllo sull’azione.
I FMD sono oggi considerati il risultato di un’interazione complessa tra fattori biologici, psicologici e sociali.
Tuttavia, a fronte di questo avanzamento sul piano scientifico, l’organizzazione clinica e sanitaria continua a mostrare un grave ritardo.
La gestione di questi disturbi resta spesso frammentaria, disomogenea e affidata all’iniziativa dei singoli professionisti, senza un percorso organico e condiviso a livello nazionale.
Questo gap organizzativo è aggravato dall’assenza di un riconoscimento ufficiale dei DNF all’interno dei percorsi di cura del Servizio Sanitario Nazionale, che non prevede tuttora Linee Guida specifiche, né modelli assistenziali codificati per questi pazienti.
“I dati raccolti dal Registro Italiano dei Disturbi Motori Funzionali (RI-DMF) – prosegue il Professor Tinazzi – coordinato da me in collaborazione con l’Accademia LIMPE-DISMOV, fotografano con chiarezza le conseguenze di questa lacuna. Su 410 pazienti arruolati in 25 centri specializzati, ben il 75% aveva ricevuto diagnosi errate di patologie neurologiche organiche, e solo dopo una media di tre consulti specialistici è stata formulata una diagnosi corretta di disturbo funzionale”.
“Serve un cambio di paradigma – aggiunge il Professor Tinazzi – Per troppo tempo i pazienti con DNF sono rimasti in una zona grigia, vittime di ritardi diagnostici, percorsi frammentati e stigma. La sinergia tra neurologia, riabilitazione e medicina generale può cambiare la vita dei pazienti. Ma serve una risposta istituzionale chiara. È tempo che la realtà scientifica trovi finalmente un riscontro nell’organizzazione sanitaria. Oggi abbiamo strumenti clinici validati, modelli di cura efficaci e un’evidenza scientifica solida: è il momento di riconoscere ufficialmente questa patologia e strutturare una rete assistenziale su più livelli”.
È proprio questa mancanza di percorsi formalizzati e riconosciuti che rende oggi la diagnosi e la cura dei DNF un’odissea per molti pazienti.
L’assenza di un inquadramento istituzionale impedisce la costruzione di una rete clinica integrata e ostacola l’accesso precoce a trattamenti efficaci, che esistono e sono validati scientificamente.
“La Società Italiana di Neurologia (SIN) intende porre con decisione all’attenzione delle Istituzioni la necessità di un riconoscimento formale dei disturbi neurologici funzionali all’interno delle patologie contemplate dal Servizio Sanitario Nazionale. È altrettanto fondamentale definire percorsi clinici specifici, strutturati e multidisciplinari per garantire una presa in carico appropriata dei pazienti – dichiara il Professor Alessandro Padovani, Presidente della SIN – Si tratta di una richiesta basata su evidenze scientifiche consolidate, dati epidemiologici significativi e sull’esperienza clinica maturata negli anni da numerosi neurologi, che quotidianamente si confrontano con una condizione ancora troppo spesso fraintesa, trascurata o, peggio, confusa con disturbi psichiatrici o attribuita, erroneamente, a una simulazione volontaria dei sintomi.”
“Senza un riconoscimento formale e senza percorsi condivisi – aggiunge Padovani – i pazienti restano soli in un sistema che non sa dove collocarli, né come accompagnarli nel loro percorso di cura. È tempo che la realtà scientifica trovi riscontro anche nell’organizzazione sanitaria”.
In questo scenario, il medico di medicina generale (MMG) assume un ruolo strategico. In quanto primo interlocutore del paziente e figura di riferimento stabile, il MMG è nella posizione ideale per sospettare un disturbo funzionale, evitare accertamenti inappropriati e indirizzare precocemente il paziente verso un neurologo esperto.
Tuttavia, proprio come emerso anche dall’indagine nazionale recentemente condotta e pubblicata, la limitata conoscenza del quadro clinico specifico rappresenta ancora una barriera all’identificazione precoce.
Da qui nasce l’esigenza di programmi formativi rivolti alla medicina generale, come il progetto avviato a Verona in collaborazione con SIMG e FIMMG, che ha mostrato l’efficacia di corsi mirati nel migliorare la capacità diagnostica e comunicativa dei MMG.
Oggi, il Centro di Verona rappresenta l’unico centro di III livello della Regione Veneto, dotato di un team multidisciplinare completo — neurologi, fisiatri, fisioterapisti, logopedisti e psicologi — e costituisce un punto di riferimento nazionale e internazionale per diagnosi, trattamento, formazione e ricerca. Il centro è anche membro del comitato scientifico della Movement Disorders Society e promuove Linee Guida ispirate ai modelli anglosassoni, come quello scozzese, basato su un approccio a tre livelli di intervento: MMG e neurologo generalista per la diagnosi (primo livello), presa in carico riabilitativa da parte di un gruppo esperto (secondo livello), e gestione dei casi complessi in centri di alta specializzazione (terzo livello).
Una rete così strutturata permetterebbe di ridurre significativamente i ritardi diagnostici, migliorare gli esiti clinici e ottenere un risparmio stimato per il SSR di circa 5.500 euro per paziente se la diagnosi fosse anticipata di almeno quattro anni.
“Non è solo una questione medica, ma di giustizia sanitaria: riconoscere i DNF e costruire una rete assistenziale dedicata significa restituire dignità a migliaia di persone, troppo a lungo ignorate dalla burocrazia e escluse da percorsi terapeutici adeguati.” conclude il Professor Padovani.
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