I bipopulisti, gli autoritari, i Cortés digitali, e il dramma dei liberali di tutto il mondo

Settembre 30, 2025 - 17:00
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I bipopulisti, gli autoritari, i Cortés digitali, e il dramma dei liberali di tutto il mondo

La sconfitta della sinistra nelle Marche, l’ennesima illusione di conquistare un piccolo Ohio nostrano, era scritta da tempo, e non è servita nemmeno la surreale curvatura finale alla Monty Python del candidato Matteo Ricci («le Marche riconosceranno lo Stato di Palestina») a far cambiare rotta alla flottilla del campo largo.

Oggi in Italia Giorgia Meloni e la sua alleanza di destra non hanno alternative politiche all’altezza, il campo largo non ha i numeri, le idee e i leader in grado di contrastarli, malgrado Matteo Renzi, uno che però di solito ci vede lungo, continui a sostenere (ieri sul Foglio) che quella intrapresa da Elly Schlein è la strada giusta per battere Meloni, a maggior ragione se Roberto Vannacci dovesse rompere la maggioranza con una mossa alla Nigel Farage nel Regno Unito, cioè dividendo il proprio schieramento con una scissione, facendolo perdere alle elezioni, per poi ereditare, al giro successivo, la leadership della destra.

Al momento però è come parlare di fantascienza, anche perché Meloni non è così ingenua da regalare ai nani della sua coalizione il vento sovranista e sciovinista che spira da tutto il mondo senza trovare ostacoli in grado di domarlo. Se a Parigi arrivasse Marine Le Pen o chi per lei, se a Berlino crescessero ancora i nostalgici del nazismo, se nel Regno Unito avanzassero i razzisti, e se il movimento Maga procedesse ulteriormente nella sua corsa sfrenata verso la fine della democrazia in America, sarà lei, Meloni, a gonfiare ulteriormente le vele di Fratelli d’Italia con una dose extra di populismo di destra, con tanti saluti alla difesa dell’Ucraina e dell’Europa e a quelli che ce l’hanno descritta come la reincarnazione di Mario Draghi.

Fuori dai confini del populismo di destra purtroppo non circolano nuove idee, il centro è stato spazzato via da entrambi gli schieramenti, e la sinistra risponde “a populista, populista e mezzo” con risultati poco lusinghieri. Il tentativo di trovare una terza via tra i due populismi, al bipopulismo, è affidato a pochissime persone isolate, a Carlo Calenda e a questo giornale, alle manovre machiavelliche di Renzi e agli adulti del Partito democratico, ciascuno con diversi gradi di coraggio, cautela e spregiudicatezza.

Nel Pd ci sono la vicepresidente del Parlamento europeo Pina Picierno e pochissimi altri a non arrendersi al destino bipopulista cui è condannato il paese. Ci prova il Circolo Matteotti, dentro il quale ci sono esponenti Pd, di Italia Viva, di Azione, radicali e socialisti, mentre i riformisti del Partito democratico, che si vedranno a Milano il 18 ottobre per rompere definitivamente con il capo corrente Stefano Bonaccini, sono sempre a metà del guado tra il miraggio di una rivoluzione blairiana e la realtà di un suicidio di massa sul modello degli adepti della setta di Jonestown.

Anche questa volta, forse per l’ultima, bisogna guardare all’America per capire dove stiamo andando. Gli Stati Uniti sono messi molto peggio di noi, con Trump al potere probabilmente a vita e con una guerra civile in corso, eppure una vera risposta democratica alternativa alla grettezza Maga ancora non si vede, divisa com’è tra l’acquiescenza dei vecchi e bolsi dinosauri del Congresso, incapaci di mobilitare perfino i familiari stretti, i movimenti di protesta egemonizzati dai Propal il cui massimalismo ha già contribuito a far perdere Kamala Harris l’anno scorso, e il ritorno di fiamma di un radicalismo populista con tratti socialcomunisti che a qualsiasi latitudine è da sempre il migliore alleato della destra sovranista.

Basta leggere il nuovo, splendido, saggio di Giuliano da Empoli “L’ora dei predatori”, appena pubblicato da Einaudi dopo l’uscita in Francia, per rendersi conto che al momento in nessuna parte del mondo esiste un’alternativa seria all’alleanza tra gli autocrati e quelli che Da Empoli definisce «i nuovi conquistadores», cioè non si è ancora trovato il modo di reagire alla miscela esplosiva fatta di nazionalismo trumpiano, di imperialismo putiniano e di transumanesimo tecnologico e reazionario della Silicon Valley. Anzi, l’alternativa che c’è in campo, ovvero la coalizione delle minoranze di genere ed etniche, radicale, e complice degli oligarchi tecnologici, addirittura spiana la strada ai nuovi spietati Cortés digitali.

Se vedi Schlein, se senti gridare «free, free, Palestine» e fischiare la proposta di liberare gli ostaggi di Hamas, se ascolti l’ennesima proposta di aumentare le tasse per risolvere tutti i problemi, se percepisci l’indifferenza generale sui temi della sicurezza, e se ti accorgi della penetrazione profonda della propaganda russa nel dibattito pubblico, alla fine è ovvio che risulti molto più rassicurante una figura politica come Meloni rispetto ai concorrenti.

Lo stesso capita in America e altrove: se l’alternativa a Trump sono le frontiere aperte, il taglio dei fondi alla polizia e gli ormoni ai ragazzini che vogliono cambiare sesso, è ovvio che una parte consistente dell’America si affiderà a chi promette sicurezza e buon senso, anche se in modo sgangherato e truffaldino.

Il New York Times ieri ha inaugurato una serie di articoli per raccontare la direzione che sta prendendo l’opposizione liberal a Trump, e leggendo il primo articolo non ci sono buone notizie per noi (sono ottime invece per Trump). «I democratici sono in crisi – dice il titolo – la loro unica risposta è far fuori i ricchi». Davvero un messaggio rassicurante. E dentro: «Dai populisti della prateria ai socialisti democratici, sta venendo fuori una strategia per unire il Partito democratico: una coalizione di moderati e di progressisti che tende al populismo economico ma che lascia spazio di manovra sui temi della guerra culturale».

Insomma, una via di mezzo tra il radicalismo populista del candidato sindaco di New York Zohran Mamdani, o di Alexandria Ocasio-Cortez, il cui vero precedente è la campagna presidenziale di Bernie Sanders del 2016, allora giudicata improbabile e ora improvvisamente indicata come quella giusta, e una qualche concessione alle esigenze dei conservatori, se non addirittura dei reazionari, su aborto, sicurezza, immigrazione e porto d’armi.

La declinazione italiana di questa tendenza americana a radicalizzarsi e a far saltare i tradizionali schemi politici non è tanto il campo largo di Elly Schlein, ma la versione più pura che offre il qualunquismo pronto-a-tutto di Giuseppe Conte, il quale è più populista di Schlein su economia e più radicale su Gaza, ma anche più sovranista di Matteo Salvini su Europa, Russia e sui temi della sicurezza.

Sono finiti i tempi in cui l’America trasmetteva ai partiti europei il carburante ideologico per fare politica, da una parte il conservatorismo liberale e anticomunista alla Ronald Reagan, in mezzo la terza via clintoniana, e dall’altra parte l’immaginario kennediano di Barack Obama.

Ora abbiamo Trump, il trumpismo, e i loro vassalli. Buona fortuna a tutti noi.

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