Il trionfo del cibo al Bar Sport

«Al bar Sport non si mangia quasi mai. C’è una bacheca con delle paste, ma è puramente coreografica. Sono paste ornamentali, spesso veri e propri pezzi d’artigianato. Sono lì da anni, tanto che i clienti abituali, ormai, le conoscono una per una. Entrando dicono: “La meringa è un po’ sciupata, oggi. Sarà il caldo”. Oppure: “È ora di dar la polvere al krapfen”. Solo, qualche volta, il cliente occasionale osa avvicinarsi al sacrario. Una volta, ad esempio, entrò un rappresentante di Milano. Aprì la bacheca e si mise in bocca una pastona bianca e nera, con sopra una spruzzata di quella bellissima granella in duralluminio che sola contraddistingue la pasta veramente cattiva. Subito nel bar si sparse la voce: “Hanno mangiato la Luisona!”. La Luisona era la decana delle paste, e si trovava nella bacheca dal 1959. Guardando il colore della sua crema i vecchi riuscivano a trarre le previsioni del tempo». Ovviamente l’atto sacrilego e avventato di mangiare la Luisona non è andato impunito, e lo sventurato rappresentante di Milano è stato ritrovato dopo un’ora nel bagno di un autogrill di Modena, «in preda ad atroci dolori. La Luisona si era vendicata». (Bar Sport, Oscar Mondadori, 1976)
Stefano Benni, nato nel 1947 a Bologna, è morto oggi. Scrittore, umorista, sceneggiatore, giornalista, drammaturgo, era soprattutto poeta, perché di poesia sono permeati tutti i suoi racconti, anche quelli più divertenti. E la poesia del cibo mangiato (o non mangiato) nei suoi immaginari bar è un’eredità tangibile lasciata a tutti noi. Il primo, indimenticabile, Bar Sport, racconta quelle piccole realtà di provincia che fanno da sfondo alle chiacchiere e alle partite a carte in ogni paese d’Italia: tra biliardi e calcetti si organizza la pesca con i boeri. Si tratta di boeri al liquore ma «aprendoli si scoprono avanzati processi di cristallizzazione, stalattiti, blocchi di cemento, tutto insomma all’infuori del liquido originario». Il cibo nei bar accompagna e definisce i personaggi, dal carabiniere che beve caffè spesso corretto, alle anziane signore con i loro barboncini ottantenni che «mangiano dei piccoli bignè schizzandosi la crema in faccia e bevono tè, ingollando anche il sacchettino perché non ci vedono», dai gatti da bar (basti citare il Trippone e l’Affamato) fino al Nonno da bar, che odia i gelati perché «è molto goloso, ma lui non riesce mai a mangiarne uno senza restare con il bastoncino in mano e tutto il resto precipitato sulle braghe. Asserisce che le case non fanno gelati, ma macchine diaboliche per sporcare i nonni. Il suo sogno sarebbe un gelato che gli camminasse fino in bocca».
Ancora le brioche, che tornano nella narrazione nei bar e nei racconti di Benni: si parte da quelle “stagionate” del Bar Peso di Bar Sport 2000, che «si possono mangiare solo scalfendole con un punteruolo da parmigiano, e non si sciolgono nel cappuccino, a meno che non chiediate una correzione di acido muriatico» (Feltrinelli, 1997), per arrivare alla «Palugona, torta tipica di Monzurlo, parente stretta della Luisona. La Palugona è fatta con farina di castagne, burro, ghiaia, mascarpone, mandorle, miele, ricotta, colla di pesce, segatura e canditi». E infine la contemporaneità, l’innovazione, le tendenze più attuali della gastronomia che invadono anche i bar, con la miniaturizzazione delle paste: «più piccole e costose sono le paste, più il bar è fico».
Solo bar nel rapporto tra Benni e il cibo? No ovviamente. Pensiamo al “Ristorante rustico” raccontato ancora in “Bar Sport”, che si trova in aperta campagna e ha la caratteristica insolita di spostarsi: «se voi infatti scoprite un bel ristorantino rustico, ci mangiate bene e poi volete indicarlo agli amici, non otterrete altro risultato che farli girare per tutta una notte nel buio della campagna». Non servono mappe o indicazioni precise: gli amici «finiranno inevitabilmente nell’aia di una casa di contadini, con cani ululanti che mordono il cofano della macchina e vecchiette silenziose che vi guardano arrivare come se foste una pattuglia di soldati nazisti».
Contrappunto ideale del ristorante rustico è il locale de “Il più grande cuoco di Francia” che in Il bar sotto il mare (Feltrinelli, 1987) sparge i suoi profumi nel centro di Parigi, profumi tanto allettanti da attirare un cane nero, un randagio tormentato da una fame atavica. Per lui la cucina del Ristorante Bon-bon, cinque stelle, è il paradiso, un luogo da sogno dove si preparano delizie come la “mousse topaze”, fatta di fegato d’oca, aragosta ed erbe provenzali. È il suo profumo che ha indotto il cane a entrare e ad avvicinarsi allo chef, il maestro Ouralphe, e al suo aiuto cuoco. Il dialogo tra in due, captato dal cane, è uno spaccato del lavoro in una cucina. La qualità della mousse è al centro del dialogo tra apprendista e maestro, e finisce con l’indicazione precisa da parte dello chef: «caro Ascalaphe, è probabile che tu sia stato troppo timido col Sauternes e che l’oca sia di fegato un po’ grasso, allevata in fretta. Metti altre dieci gocce di vino e il matrimonio si farà». Matrimonio tra vino e oca. Il cane si avvicina e Ouralphe lo accoglie come un fan, dato che, si lamenta, oggi la sua arte non è più abbastanza apprezzata: «piccole porzioni per stomachini indifferenti o ircocervi proteinici per esibizionismo festaiolo. Ecco cosa vuole la gente: raccontare agli altri cosa ha mangiato». La notte procede, il cuoco si assopisce e all’improvviso tutto cambia: il cane non è quello che sembra, ma si trasforma nel diavolo. E il diavolo ha fame. Così indugia e ignora per il momento la lista di peccati dello chef. Ouralphe gli propone i suoi capolavori: tra questi le grand océan in cui tre cerchi corrono intorno al centro del piatto, e il terzo cerchio è composto da un “carrousel stile Bayol di trecento ostriche alla salsa reale, ognuna recante a mo’ di perla una polpetta di rana o di fegato di testuggine, e altrettante patelle e cannolicchi”. Un richiamo palese all’Inferno di Dante e al Terzo cerchio dove vengono puniti i golosi. Le specialità successive, dal monte a strati, fatto di bignè e spuma di riso, fino al giardino di Salomè, sono ricche di suggestioni alla letteratura, da Petronio a Boccaccio. Il diavolo mangia di gusto, ma non arriva al dolce: «niente spuma di mele né sorbetto. Il diavolo aveva reclinato la testa. La coda gli sporgeva indecorosamente dal calzone. Di lì a poco incominciò a russare». Al suo risveglio vide Ouralphe fischiettare e sbattere i tuorli: viole portarlo via con sé, ma il cuoco ne sa una più di lui. «Se il diavolo viene e si addormenta, per dieci anni poi non ti tormenta». Il cibo trionfa anche sul Maligno.
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