In un mondo in guerra «dobbiamo risvegliare l’umanità alla speranza»


La guerra – anzi, purtroppo, le guerre – la pace lontana e gli appelli del Papa, la condanna delle idolatrie e la seminagione della speranza; il ruolo della Chiesa e degli organismi internazionali; i grandi “giochi” di potere in cui si intrecciano le antiche volontà di potenza e le nuove fragilità degli Stati Uniti e della Russia. Questi i contesti in cui è articolata la Due giorni dedicata a «Geopolitica e pace. Il dovere di immaginare il futuro» al Centro pastorale ambrosiano di Seveso, promossa dal Vicariato per la Formazione permanente del Clero e rivolta anzitutto ai preti del primo decennio di ordinazione sacerdotale, ma aperta a tutti. A confrontarsi, nella prima sessione, in una tavola rotonda dal titolo «La situazione geopolitica mondiale, la responsabilità della Chiesa, il dialogo, l’educazione alla pace», due assoluti esperti dei panorami internazionali come Lucio Caracciolo (fondatore della rivista Limes e docente di Studi strategici nel Dipartimento di Scienze politiche della Luiss) e Andrea Riccardi (storico, fondatore della Comunità Sant’Egidio e già ministro, collegato da remoto). Molti i sacerdoti presenti e, con loro, alcuni Vicari episcopali di Zona e di Settore e i responsabili della Formazione. Dopo un momento di question time, a concludere i lavori – moderati da Stefano Femminis, responsabile dell’Ufficio per le Comunicazioni sociali della Diocesi e portavoce dell’Arcivescovo – lo stesso monsignor Delpini, che ha avviato il suo intervento dal dovere della profezia.
Nella seconda sessione, sempre a Caracciolo e a monsignor Bernardito Cleopas Auza, da marzo Nunzio apostolico presso l’Unione Europea e già Osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite, il compito di affrontare il tema «L’Onu dov’è oggi? E l’Europa? Come potrebbero muoversi queste realtà come apporto alla pace».
Il dovere della profezia
«Mi pare che questa generazione sia predisposta alla schiavitù e ad arrendersi – ha notato monsignor Delpini -. Tanta gente è pronta a obbedire, perché non è capace di stare con la schiena dritta come lo sono stati i martiri per la fede. Come cristiani, anche nella situazione attuale, abbiamo il dovere e la responsabilità della profezia». «Cosa ci insegna la profezia biblica? – si è chiesto -. A essere contro l’idolatria e contro l’adulazione delle opere delle proprie mani. La profezia ha un qualcosa di radicale: la condanna dell’idolatria, ma anche la seminagione della speranza. Dobbiamo formare, certo, persone preparate, ma la profezia ci impegna sui linguaggi della contestazione e della consolazione. Questo è ciò che dobbiamo fare. Oggi l’umanità ha bisogno di essere risvegliata alla speranza, di fronte all’incomprensibile vicenda contemporanea».
Anche contro ogni senso di impotenza da cui è facile essere pervasi con il conseguente «convincimento che sia meglio l’indifferenza», ha sottolineato ancora, indicando come secondo aspetto fondamentale «l’educazione». «Il vanto della società occidentale contemporanea – l’individualismo -, è la sua fragilità. Se ciascuno è solo non può fare altro che piegarsi. È una fragilità fatta di dipendenze dalla droga, dai social, dalle apparenze. La droga è troppo diffusa e troppo dimenticata e l’educazione deve incidere cercando di costruire persone che superino dipendenze e individualismo, raccogliendo il messaggio evangelico della libertà, della dignità, di intendere la vita come vocazione. E questo vuol dire anche avere cultura, conoscere le cose, l’informarsi».
La responsabilità della speranza
Infine, la responsabilità della speranza, che «è affidarsi alla promessa di Dio che vuole salvare tutti. Una promessa che autorizza le persone ad avere stima di sé, con la predisposizione al bene e al perdono, sapendo che tutti siamo fatti per il bene. La storia, che comprende disastri e rinascimenti, come prosegue, quando tutto pare distrutto e sembra di essere in un cimitero? Da dove è venuta la forza della ricostruzione dopo la guerra, per esempio, con l’intraprendenza impressionante delle nostre terre? Dalla vocazione al bene che la gente aveva nel cuore e che l’ha portata ad avere stima di sé e ad aggiustare il mondo. Se nel cuore germoglia il perdono, chi ci autorizza a non avere fiducia nell’umanità? Occorre interpretare questo nostro tempo, non per deprecare, ma per rispondere alla vocazione al bene, essendo profeti, educatori e pellegrini di speranza».
Caracciolo: la geopolitica oggi
«Stiamo vivendo una rivoluzione geopolitica, perché non c’è più nulla di stabilito e di prevedibile – ha scandito, da parte sua, Lucio Caracciolo -. Le guerre, quando cominciano, vanno fuori controllo e chi le inizia e pensava di usarle ne viene, di solito, usato. La crisi delle società occidentali è una crisi di coesione sociale che si esprime nella crisi della famiglia come istituzione sociale per eccellenza. La stessa parola “politica” sta perdendo di senso. La crisi americana è di identità e di sistema e questo riflette un malessere profondo della classe media bianca, dove i cosiddetti “deplorevoli” hanno trovato in Trump il loro campione: un signore che ha tentato un colpo di Stato, fallendo, e che vorrebbe avere un terzo mandato cambiando la Costituzione». Tuttavia, un «Paese in cui ci sono più fucili che abitanti, oggi non è in grado di fare una guerra vera, proprio per la carenza di coesione sociale, tanto che il 70% degli americani non crede più nell’american dream».
In tutto questo si inserisce il ruolo della Cina, sempre più preponderante, e della Russia con il conflitto scatenato in Ucraina: «Questa guerra ha un’origine geopolitica molto evidente, dopo il crollo dell’Urss. L’Ucraina appartiene a quella fascia intermedia che è l’“istmo” di Europa, dove si confrontano il blocco Nato e la Russia. Il risultato è che non si riesce a sedare la tragedia in corso perché Putin è convinto che, per l’Ucraina, sia solo questione di tempo, perché non può sopravvivere, anche a causa di una drammatica crisi demografica». Da qui il monito per tutti: «Ricordiamoci che la distanza tra Trieste e il confine occidentale dell’Ucraina è meno di quella tra Trieste e Napoli».
E se Putin sogna una nuova Russia, sul modello di Caterina la grande, anche Israele – pur non dimenticando mai il 7 ottobre con le sue 1200 vittime civili – vuole un “grande Israele” dal fiume Giordano al mare, «per cui il 7 ottobre è servito come leva per la vittoria decisiva». «La conseguenza di queste due guerre per noi è la sfida dell’Indopacifico. Tra i gradi Paesi europei siamo gli unici a non avere uno sbocco in oceano, e la situazione odierna mette in questione la condizione del cruciale rapporto tra il Mediterraneo, il Mar Rosso e l’Oceano indiano», ha concluso Caracciolo.
Il ruolo della Chiesa
Dalle espressioni di papa Francesco sulla «III guerra mondiale a pezzi e sul cambiamento d’epoca con una realtà fatta di “io” e non dal noi», parte l’analisi di Riccardi. «Che può fare la Chiesa? Già è un segno di speranza che non si sfugga la realtà – spiega -. Per secoli le Chiese locali si sono incarnate nelle guerre, ma tra il ‘900 e il 2000 la pace è divenuta un tema centrale e il fulcro del magistero del vescovo di Roma. La Chiesa è un’internazionale dei popoli e la guerra è un dramma per la Chiesa in sé. Basti pensare che la guerra in Ucraina è anche una lotta delle Chiese ortodosse fondate sulle identità nazionali. La posizione del patriarca di tutte le Russie, Kirill (di benedire l’esercito di Putin), se letta nella storia dei rapporti tra il Patriarcato e il potere, ha la sua continuità. E poi c’è l’Ucraina, un Paese composito e dalla storia religiosa complessa, anche riguardo alle Chiese ortodosse. Ma stiamo attenti, perché il rischio è anche quello della nazionalizzazione del cattolicesimo dove, rispetto al modello democratico cristiano che sembrava vincente, prevale oggi quello di Orban».
Il pensiero va a Benedetto XV e al 24 agosto 1939, quando Pio XII disse: «Nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra». «Bisogna passare dall’età della forza a quella della trattativa, per usare un’espressione di La Pira – ha aggiunto il fondatore di Sant’Egidio -. La Chiesa si pone come spazio di asilo e i vescovi, i parroci sono divenuti, nel tempo, veri (e talvolta unici) difensores civitatis, come fu per il cardinale Schuster a Milano nel periodo dal 1943 al 1945». Ma come fu anche, nel dopoguerra, per i Papi, con Giovanni XXIII e il suo ruolo nella crisi di Cuba del 1962, con l’enciclica Pacem in terris e con Paolo VI e il suo «Mai più la guerra», pronunciato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1965.
«La forza della Chiesa è di essere testimone di una storia di dolore e la religione esercita un suo ruolo in quelle che san Giovanni Paolo II ipotizzava, quali “transazioni senza violenza”, come accadde nella sua Polonia – ha concluso Riccardi -. Ma ora assistiamo a una riabilitazione della guerra, con l’uso della forza senza regole e senza coerenza e con una teorizzazione che la guerra sia naturale. Questa riabilitazione è il dramma della Chiesa di oggi e la solitudine dei Papi attuali».
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