L’intelligenza artificiale produce musica parassitando quella vera, per poi sostituirsi a essa

Settembre 14, 2025 - 01:00
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L’intelligenza artificiale produce musica parassitando quella vera, per poi sostituirsi a essa

Stai ascoltando un po’ di musica su Spotify. Sei nel mood anni Settanta, trovi la playlist “Vietnam War Music”. Fai partire la riproduzione automatica: si susseguono pezzi iconici, dai Rolling Stones ai Doors, dai Jefferson Airplane ai Creedence Clearwater Revival. A un certo punto, fra questi giganti della musica, parte un brano nuovo, mai sentito, che ricorda un mix tra gli America, Neil Young e gli Eagles, mentre il riff iniziale della chitarra suona morbido, à la Hermanos Gutiérrez. Un sole che tramonta sulle distese aride del Texas: questo ciò che evoca il sound, caldo come la steppa e vellutato come gli stivali di un cowboy. Si intitola “From Deep Within”, è della band The Velvet Sundown. Più di trecentocinquanta mila ascoltatori mensili, i brani più streammati fanno quasi tre milioni di views il primo, un milione e passa il secondo.

Unico dettaglio: i Velvet Sundown non esistono. Tutti i brani, così come le foto del gruppo – che si possono trovare su Internet e che con quelle facce fin troppo perfette e levigate appaiono fake a un occhio mediamente allenato  – sono prodotti dell’intelligenza artificiale. La band è sulla piattaforma da giugno, e ha già questi numeri. Tuttavia, Spotify non solo non segnala che il gruppo è creato dall’intelligenza artificiale, ma addirittura gli dà la spunta blu e la dicitura “Artista verificato”. Ed è solo cercando più approfonditamente fra le informazioni della band che si trova (traducendo dall’inglese): “The Velvet Sundown è un progetto di musica sintetica guidato da direzione artistica umana e composto, vocalizzato e visualizzato col supporto dell’intelligenza artificiale”.

Se si riprende a navigare fra i meandri di Spotify, ci si può imbattere in The Good Dog, anch’egli approvato con l’etichetta di “Artista verificato”. La prima cosa che salta all’occhio è che, a differenza dei Velvet Sundown, i cui album avevano copertine illustrate (dall’intelligenza artificiale, tanto per cambiare), qui compare il volto di un ragazzo sulla ventina, stile urban e capelli riccioli, pel di carota. “The Thief of Time”, la prima canzone nella playlist, suona un po’ come un’evoluzione pop dei Clash, un punk-rock dal sound londinese che mescola Pete Doherty, The Black Keys e Arctic Monkeys. Anche lui, tuttavia – nonostante la spunta blu – non esiste. Eppure i suoi brani, esattamente come quelli dei Velvet Sundown, supererebbero egregiamente il test di Turing, quello in cui si mette alla prova la capacità di distinguere il prodotto di un essere umano da quello di una macchina. I suoi pezzi, infatti, sono praticamente indistinguibili da quelli registrati da musicisti in carne e ossa.

E non è finita qui: The Good Dog, l’artista AI-generated dalle vibes grunge, è solo uno dei dieci nomi della batteria di musicisti che appartengono all’etichetta All Music Works, la prima label a sponsorizzare cantanti la cui identità è interamente costruita con l’intelligenza artificiale generativa.

Nella sezione Artists dell’etichetta discografica spagnola, ecco tutti gli altri: Miyo, Peggao, i Rift boys, e così via, tutti giovanissimi e freschissimi. Un elenco di cantanti, ciascuno con la propria immagine del profilo e una fotografia iper-realistica (in cui proprio quell’iper, tuttavia, l’essere fin troppo nitida e perfetta, tradisce a uno sguardo più attento la sua falsità). Aprendo le schede-artista, ecco le loro presentazioni con tanto di fotogallery, come se ci si trovasse su una versione IA di Rockit – in fondo, su di uno schermo le vite si riducono a bio e il Sé a delle immagini, quindi tutto sommato gli artisti risultano credibili. Miyo è una «giovane artista sudcoreana» che «ama la moda». Nella sua musica «fonde K-pop e stile urban»: volto pulito, labbra carnose, denti perfetti e un’espressione un po’ da lolita, veste tute acetate cyberpunk. Peggao, invece, è «nato a Puerto Rico ma cresciuto a Miami». E si vede: stile da cantante reggaeton, carnagione olivastra, treccine alla Bad Bunny. Sarebbe strano, se facesse musica classica. E infatti, per avere un’identità coerente – ma al costo di essere assolutamente prevedibile – Peggao «mescola ritmi latini, influenze caraibiche e beats elettronici».

Entrambi su Spotify. Entrambi, sia Miyo che Peggao, contrassegnati dalla solita spunta blu e dalla scritta “Artista verificato”.

Nella recente indagine condotta dal Financial Times (in forma di podcast) sull’impatto dell’intelligenza artificiale nel mondo dell’industria musicale, viene riportato un dato allarmante: su Deezer – un’altra grande piattaforma di streaming, che nel 2024 ha registrato quasi venti milioni di utenti attivi – circa il diciotto percento degli upload giornalieri, e cioè dei brani caricati quotidianamente, è AI-generated. E, in assenza di statistiche chiare, anche su Spotify le percentuali dovrebbero essere molto simili se non addirittura maggiori, dice il musicista e compositore Ed Newton-Rex nel podcast.

Questa valanga di canzoni generate da algoritmi, tuttavia, non proviene soltanto da compagnie di musica IA o etichette in cui lavorano professionisti del mestiere, come nel caso di All Music Works. Anzi, la maggior parte sono state prodotte da piattaforme che ricorrono a modelli di music generation commerciali che chiunque può usare – sia nella versione gratis che, per ottenere performance migliori, a pagamento.

Le compagnie più famose sono: Suno, Udio, MusicGen e Boomy. Proprio quest’ultima, in calce al suo sito, proclama con orgoglio che «gli artisti Boomy hanno creato ventun milioni e seicentomila brani originali». Di questi, molti sono finiti su Spotify, che ne ha cancellati solo il sette per cento. Nel podcast si aggiunge infatti che, come nel caso dei Velvet Sundown e dei simulacri di All Music Works, la piattaforma svedese con quasi settecento milioni di utenti non contrassegna né rimuove musica prodotta dall’intelligenza artificiale, a meno che non violi apertamente termini e condizioni – come in casi di plagio esplicito o di furto d’identità di musicisti reali.

E a proposito di furto d’identità, è già successo. Nell’aprile 2023 uscì  “Heart On My Sleeve”, brano in cui il famoso rapper Drake duetta con The Weekend. Il pezzo divenne virale, per poi saltar fuori che però era tutto falso: le loro voci, infatti, erano state completamente clonate e inserite in un brano AI-generated dall’utente TikTok Ghostwriter977.

Nel racconto del Financial Times emergono innanzitutto i timori dei musicisti e dei compositori, che si trovano improvvisamente in una concorrenza spietata con la potenza inarrestabile degli algoritmi, nella condizione di dover sgomitare fra una marea di brani vomitati dall’intelligenza artificiale. Inoltre, non solo le canzoni generate con l’intelligenza artificiale saturano l’offerta, creando così un marasma in cui per i musicisti diventa ancora più difficile emergere, ma, prima ancora, l’intelligenza artificiale sfrutta i loro brani – il più delle volte coperti da copyright – come materia prima, come elementi del database a cui attinge per produrre i propri pezzi AI-generated. Senza che i musicisti lo sappiano, senza il loro consenso, e senza che ricevano un centesimo.

C’è chi si batte contro questo sciacallaggio. Come il già citato Ed Newton-Rex, fondatore di Fairly Trained, una organizzazione non-profit che difende i diritti d’autore dei musicisti nel processo di  “addestramento della macchina”. Grandi etichette come Sony Music Entertainment, Universal Music Group e Warner Records, tramite la RIAA (Recording Industry Association of America), hanno intentato cause federali negli Stati Uniti contro Suno e Udio. Le accuse sostengono che i modelli IA delle startup siano stati allenati usando registrazioni protette da copyright senza licenza. Quando si usano per gioco piattaforme come Suno, dunque, bisogna ricordarsi che si sta in parte contribuendo a questo fenomeno.

Ma il danno più grande è sicuramente quello inferto ai musicisti: i loro brani vengono presi, impastati dagli algoritmi insieme ad altri, digeriti ed espulsi come  “canzoni originali”. Magari poi attribuite a una faccia, sempre falsa e generata da un algoritmo, come quella di Peggao, che per quanto integralmente virtuale diventa pure un nuovo competitor sulla scena. Dopo aver creato da zero “arte” e “artista”, segue l’upload del brano sulla piattaforma di streaming. E Spotify cos’ha da dire, di tutto questo?  “Artista verificato”.

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Redazione Redazione Eventi e News