Perché il cambiamento climatico rende impossibile la viticoltura biologica

Settembre 23, 2025 - 01:00
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Perché il cambiamento climatico rende impossibile la viticoltura biologica

Per più di un secolo il rame è stato il presidio silenzioso della viticoltura biologica. Usato in forma di poltiglia bordolese o di altri composti, rappresentava l’unico baluardo concesso anche in regime bio efficace contro peronospora e oidio, le due malattie fungine più temute dai vignaioli. Oggi però la Francia ha deciso di togliere dal mercato venti dei preparati più diffusi, lasciandone solo due con regole d’uso rigidissime. Una stretta motivata da considerazioni sanitarie e ambientali, ma che di fatto spinge l’agricoltura bio a un bivio: continuare a definirsi tale, pur senza strumenti efficaci, oppure cercare soluzioni che ne mettano in discussione i fondamenti.

Il problema è che il contesto climatico non è più lo stesso di qualche decennio fa. Il riscaldamento globale non significa soltanto temperature più alte: significa soprattutto instabilità. Primavere sempre più piovose, estati umide alternate a periodi di siccità estrema, autunni più lunghi e imprevedibili. Tutto questo crea condizioni ideali per la diffusione delle malattie fungine, che trovano nei vigneti un terreno fertile e difficile da difendere. In molte aree europee, dalle colline della Borgogna al Trentino, l’uso del rame già superava i limiti raccomandati, vanificando di fatto l’efficacia ambientale di una viticoltura in bio. Con le nuove regole, la viticoltura bio privata del rame rischia di non riuscire più a proteggere le viti in annate complicate.

Non si tratta di una questione di volontà, ma di possibilità. La promessa del biologico era quella di produrre rispettando la natura e i suoi equilibri, ma la natura che conoscevamo è cambiata. Dove le piogge erano regolari e prevedibili, oggi si abbattono nubifragi che in pochi giorni annullano settimane di lavoro. Dove i cicli stagionali erano scanditi, oggi le anomalie creano finestre di rischio difficili da gestire. Senza il rame – o con quantitativi troppo bassi per essere efficaci – le vigne bio restano indifese. Ma con le piogge così insistenti, il rame doveva essere ripassato.

Alcuni produttori guardano con speranza alle nuove tecniche di viticoltura di precisione, all’uso di estratti vegetali, microrganismi antagonisti, modelli previsionali sempre più accurati. Ma la scala del problema supera l’efficacia delle soluzioni. Non si tratta solo di trovare un sostituto del rame, ma di ripensare radicalmente l’approccio alla sostenibilità: dall’ibridazione delle varietà resistenti, alla riduzione della monocoltura, all’utilizzo di nuovi modelli e pratiche, fino a un equilibrio diverso e non contrapposto, non fazioso ma condiviso tra convenzionale, biologico e biodinamico.

Il paradosso è evidente: l’agricoltura biologica nasce per rispondere a un’esigenza ambientale, ma il mutamento climatico in atto rischia di renderla impraticabile. La domanda non è più se il bio sia migliore o peggiore, ma se sia ancora possibile. Da parte nostra, l’abbiamo scritto più di due anni fa: «È proprio vero che se tutti facciamo agricoltura biologica il mondo sarà migliore? Siamo certi che entrare in vigna più di trenta volte a ridosso della vendemmia inondando la terra di rame sia più salutare, per il terreno, rispetto a usare quando serve e con coscienza un fitofarmaco mirato? E siamo certi che quella tradizione che difendiamo con ardore, come se fosse l’unica alternativa possibile per preservare la nostra identità, non sia invece un ancorarsi a vecchi modelli gastronomici superati, senza la voglia, il bisogno e la creatività per passare oltre?».

Cambiare il sistema nel suo complesso significa modificare i presupposti e lavorare sui dogmi: ad esempio, se la peronospora è una delle malattie più impattanti sul vigneto, ostinarsi con una coltivazione biologica forse non è più attuale e rischia addirittura di farci perdere terreni e vigne. Questa malattia della vigna è sempre più devastante e – in biologico – può essere combattuta solo con passaggi di rame e zinco, da ripetere dopo ogni pioggia. Accumuli di rame nel terreno, compattamento del suolo a causa dei numerosi passaggi con il trattore, pericolosità per l’uomo di questi trattamenti ripetuti, su terreni sempre più bagnati e difficili, rende tutto insostenibile, sia a livello economico sia per le emissioni.

Il residuo dei metalli pesanti nel suolo non aiuta le falde. Ma soprattutto il rame non garantisce la salubrità della pianta, che potrebbe comunque ammalarsi. Ha senso rischiare la salute degli operatori, la perdita del raccolto, e la malattia della pianta, per rimanere nei parametri di un regime al solo scopo di avere una certificazione? Ha senso perdere la pianta e inquinare il terreno per preservare il biologico? Non sarebbe invece più utile e intelligente cambiare le regole e comprendere la natura, usando il buon senso e capendo, a seconda delle stagioni, che cosa sia più opportuno fare, in quel luogo e in quel momento? Ce lo chiedevamo in tempi non sospetti, e oggi, finalmente, qualcuno ha fatto il primo passo in una direzione diversa.

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