Perché la burocrazia limita innovazione e produttività nelle aziende
Lavorare in grandi aziende può far sentire come un ingranaggio di una macchina enorme, soprattutto quando le idee innovative si perdono tra email, call e meeting: il peso della burocrazia. Gary Hamel, esperto di management, ha provato a cambiare questo modello, rimettendo le persone al centro. Ne ha parlato alla ventiduesima edizione del World Business Forum, l’11 e 12 novembre 2025 presso Allianz MiCo – Milano Congressi. Ne abbiamo parlato con lui.
Nel suo libro Humanocracy scrive che la burocrazia ostacola creatività e produttività. Dovremmo dare agli innovatori in azienda la stessa libertà che un bambino ha giocando nella sabbia?
Per capire la burocrazia dobbiamo tornare al 1890. I dipendenti erano perlopiù analfabeti, la competenza amministrativa era rarissima. L’obiettivo era produrre affidabilità: controllare il comportamento delle persone per ottenere efficienza. Il problema è che controllo e innovazione sono opposti. L’innovazione richiede curiosità, tempo, sperimentazione. Richiede una quota di gioco. Le aziende oggi hanno sistemi sofisticati per garantire conformità, ma quasi nessun sistema per incoraggiare sperimentazione e imprenditorialità. In un mondo in cui l’innovazione è un vantaggio competitivo vitale, questo squilibrio è insostenibile.
Se la creatività prospera nella libertà, perché quindi continuiamo a ingabbiare i talenti in procedure e livelli gerarchici?
Perché la burocrazia è auto-replicante. Ogni crisi produce un nuovo chief officer. Ogni capo vuole più persone nel proprio team. Ogni funzione crea regole che giustificano la sua esistenza. E per molti manager la burocrazia è una zona di comfort: lì hanno fatto carriera, lì sanno come “giocare il gioco”. Ma i costi sono enormi. Negli Stati Uniti abbiamo stimato 2,6 trilioni di dollari l’anno di produttività persa. E in Europa il fenomeno è persino peggiore: gli impieghi amministrativi crescono tre volte più degli altri.
Lei sostiene che dobbiamo costruire organizzazioni realmente human-centric, basate su principi nuovi. Da dove si parte?
Dal principio più importante: far sentire le persone come proprietari, non come dipendenti. Nel vecchio modello l’essere umano è uno strumento per far funzionare l’organizzazione. Nelle aziende human-centric è il contrario: è l’istituzione a essere lo strumento della crescita della persona. Le aziende che funzionano mettono in fila le priorità così: dipendenti, clienti, azionisti. Non perché ignorino gli azionisti, ma perché se sbagli l’ordine, sacrifichi tutto il resto.
Il suo punto è radicale: l’umanità ha già tutte le qualità che le aziende cercano, ma le aziende non riescono a esprimerle.
Esatto. Gli esseri umani sono creativi: basta guardare YouTube, 60 milioni di canali. La creatività c’era già; servivano strumenti e libertà. Gli esseri umani sono coraggiosi: cambiano vita, formano famiglie, fanno scelte difficili. Gli esseri umani sono resilienti: lo abbiamo visto durante il covid. Le organizzazioni invece sono timide, lente, incrementaliste. Per liberare il potenziale umano serve una cosa: ownership. È per questo che aziende come Haier o Vinci si sono spezzate in migliaia di micro-imprese interne: perché quando qualcosa “è tuo”, ti comporti da imprenditore.
Nel libro lei sostiene che le aziende dovrebbero funzionare come mercati interni, con team che agiscono come micro-imprese. Ma allo stesso tempo insiste sull’importanza della comunità. Come possono convivere?
Come convivono amore e disciplina quando si educa un figlio. Come convivono misericordia e giustizia in una società. La chiave è progettare sistemi che creino tensione sana, non esclusione reciproca.
L’Europa sta lavorando molto sulla trasparenza, ad esempio con la direttiva sulla trasparenza salariale. È possibile che la spinta a superare la burocrazia arrivi dalla regolazione esterna?
In parte. Alcune regolazioni possono favorire trasparenza e responsabilità. Ma, realisticamente, la regolazione tende più spesso a creare nuova burocrazia che a ridurla. In molti Paesi europei assumere o licenziare è costoso; il risultato è meno dinamismo e produttività stagnante. E un dato è evidente: gli impieghi amministrativi crescono più rapidamente degli altri. Questo non è un prodotto della regolazione: è un prodotto della cultura burocratica interna.
Insieme a Michele Zanini ha descritto un percorso per trasformare le organizzazioni. Può sintetizzarlo?
Per me il percorso si basa su quattro elementi. Il primo è la motivazione: bisogna riconoscere che la burocrazia è un problema enorme, non solo per l’efficienza ma per l’etica. È inaccettabile che l’82% dei dipendenti nel mondo non sia coinvolto nel proprio lavoro. Per questo abbiamo creato il Bureaucracy Mass Index, per misurare il fenomeno. Poi servono i modelli. I leader si muovono quando vedono che il cambiamento è possibile, e oggi esistono aziende che hanno ridotto drasticamente i livelli gerarchici o persino eliminato i manager. Il terzo passaggio riguarda la mentalità. Non risolvi problemi nuovi con principi vecchi: innestare metodi come l’Agile o Lean su una struttura burocratica è, come dico spesso, “mettere un tutù a un cane e sperare che diventi una ballerina”. Servono nuovi principi, non nuovi processi. Infine, c’è la migrazione. Le organizzazioni non si fanno saltare in aria: si evolvono. E l’evoluzione avviene solo attraverso esperimenti dal basso, non con progetti top-down.
E per chi guida? Come si fa a superare lo status quo?
Serve una cosa che le aziende non misurano mai: coraggio personale. Molti leader hanno avuto successo proprio grazie alla burocrazia: difendere il proprio perimetro, gestire verso l’alto, negoziare obiettivi, evitare rischi. Per loro la trasformazione è una minaccia identitaria. E allora il primo passo è: debureaucratize yourself. Chiedersi “dove sto trattenendo autorità che dovrei distribuire?”, “dove sto difendendo regole che non hanno senso?”, “dove sto acconsentendo per quieto vivere invece di contestare?”. Poi c’è un passo imprescindibile: parlare con le persone. Chiedere loro cosa le blocca, cosa le demotiva, quali regole sono assurde. Questo rende il problema così evidente che diventa impossibile difendere lo status quo. Infine, bisogna costruire una base di persone favorevoli al cambiamento più forte di quella che difende lo status quo. È lo stesso principio che avrebbe potuto aiutare Papa Francesco, quando disse che la burocrazia del Vaticano era come “pulire la Sfinge con uno spazzolino da denti”.
L’articolo Perché la burocrazia limita innovazione e produttività nelle aziende è tratto da Forbes Italia.
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