Trump non è mai stato così impopolare, ma continua a dettare l’agenda politica

Settembre 6, 2025 - 05:00
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Trump non è mai stato così impopolare, ma continua a dettare l’agenda politica

Donald Trump è impopolare, ma non vulnerabile. La sua approvazione resta inchiodata sotto il quaranta per cento, con un saldo negativo costante. In altri momenti della storia americana questo livello di consenso avrebbe condannato un presidente all’irrilevanza, o almeno al logoramento. Oggi no: Trump continua a imporre la sua agenda e a dominare la scena politica. La distanza tra il giudizio dei sondaggi e l’efficacia del potere non è mai stata così marcata. Il Partito repubblicano è la prima ragione di questa resilienza politica. La base rimane fedele al presidente degli Stati Uniti quasi al novanta per cento. I dirigenti hanno rinunciato a ogni autonomia, accettando che la linea politica coincida con l’umore del leader. 

Neanche nella politica politicante i democratici riescono a sfruttare lo spazio che i pessimi sondaggi su Trump aprirebbero. La loro leadership è incerta, divisa tra chi insiste sul ruolo di guardiani delle istituzioni e chi invoca una linea più aggressiva contro la deriva autoritaria. Hakeem Jeffries e Chuck Schumer, i due capigruppo al Congresso, oscillano tra dichiarazioni prudenti e silenzi imbarazzanti, arrivando perfino a non appoggiare apertamente il candidato socialista a sindaco di New York, Zohran Mamdani, uscito vincitore dalle primarie democratiche.

Questo atteggiamento ha alimentato la percezione di un partito paralizzato, che predica unità ma pratica ambiguità. Gli attivisti chiedono un’opposizione frontale, ma i leader nazionali si rifugiano nel linguaggio istituzionale e in lettere di protesta che sembrano armi spuntate contro un presidente così imprevedibile e impermeabile alle normali regole democratiche.

Secondo Vox il problema non è la comunicazione in sé, ma la cornice, o meglio il frame. Trump ha ridisegnato il terreno politico: non si discute più di singole policy, ma di una lotta esistenziale tra «il popolo tradito» e «le élite corrotte». Su questo sfondo, ogni dibattito su prezzi, bilanci o procedure resta subalterno. I democratici parlano di Medicaid e di regolamenti parlamentari, ma la cornice resta quella trumpiana: sicurezza contro caos, forza contro debolezza. Senza la capacità di ridefinire il campo di battaglia, la loro voce non riesce a spostare equilibri.

Esiste però un terreno dove l’opposizione ha ottenuto risultati concreti: quello giudiziario. Per l’Atlantic la strategia più efficace è sommergere la Casa Bianca di cause legali, e i dati lo confermano. Nei primi sette mesi del secondo mandato, sono stati depositati trecentottantaquattro ricorsi contro decisioni dell’amministrazione; in centotrenta casi i giudici hanno bloccato, almeno in parte, i piani del presidente. In materia di immigrazione, ad esempio, diversi tribunali hanno sospeso deportazioni di massa e impedito al governo di chiudere programmi per studenti stranieri. 

Altre sentenze hanno imposto a Trump di ripristinare fondi a enti come AmeriCorps e CDC, o di fermare licenziamenti di massa nel Dipartimento dell’Istruzione. Persino i dazi, cavallo di battaglia del trumpismo economico, sono stati dichiarati illegittimi da una corte d’appello federale, aprendo la strada a un pronunciamento della Corte suprema. Non si tratta di vittorie definitive, perché spesso le decisioni vengono sospese in appello o ribaltate dai supremi giudici. Questa resistenza legale ha rallentato l’offensiva presidenziale, imposto trasparenza e rivelato al pubblico aspetti controversi delle politiche governative. È un freno parziale, ma reale, che dimostra come la via giudiziaria resti oggi l’unico strumento capace di trasformare l’impopolarità diffusa in ostacoli concreti al potere presidenziale.

Ma non si vive di soli tribunali. Certo, le corti federali rallentano le sue mosse, ma la lentezza dei procedimenti è paradossalmente proprio l’arma più potente per Trump. Lo si è visto con l’invio dei militari a Los Angeles lo scorso giugno: mentre la Corte suprema deve ancora decidere se quell’intervento sia stato legale, il presidente degli Stati Uniti ha già minacciato di replicare la stessa operazione a Chicago. Lo stesso schema vale per i dazi, su cui i giudici federali hanno imposto limiti temporanei senza però incidere subito sull’efficacia delle misure, lasciando al presidente la possibilità di reinventarle su nuove basi giuridiche. 

Come osserva l’Economist, Trump ha capito quale contromossa adottare e il suo vantaggio sta proprio nella rapidità: è «come un algoritmo, capace di spostare l’attenzione più in fretta di quanto gli avversari riescano a reagire». Intanto le università temono di perdere finanziamenti, i grandi studi legali evitano cause troppo rischiose per non perdere clienti governativi, le aziende scelgono di accomodarsi invece di esporsi a rappresaglie fiscali o regolatorie. Anche i media, logorati dai tagli e dalla diminuzione degli ascolti rispetto al 2017, hanno perso parte della loro aggressività. L’insieme di questi fattori produce un effetto di paralisi: ogni attore valuta il costo individuale della resistenza e sceglie l’adattamento, con il risultato di una resa collettiva. Insomma: la teoria dei giochi nell’era di Trump.

A tutto questo si aggiunge la riscrittura della geografia politica. Negli ultimi mesi, su impulso diretto della Casa Bianca, diversi stati hanno approvato o stanno discutendo mappe elettorali che alterano in profondità la competizione. In Texas il governatore Greg Abbott ha firmato ad agosto un nuovo disegno dei distretti che potrebbe consegnare ai repubblicani cinque seggi aggiuntivi. In Missouri è stata convocata una sessione straordinaria con l’obiettivo di smantellare la roccaforte democratica di Kansas City, diluendo l’elettorato urbano nei distretti rurali. In Indiana i leader repubblicani hanno incontrato Trump e il vicepresidente J. D. Vance per valutare una revisione a metà decennio. 

La risposta democratica è partita dalla California, dove il governatore Gavin Newsom ha promosso un referendum per ridisegnare i confini e conquistare fino a cinque seggi, ma la mappa dovrà superare il voto popolare di novembre. In Louisiana e in Ohio sono già attese decisioni giudiziarie che potrebbero aprire la strada a nuove manipolazioni. Con distretti sempre più cuciti su misura, l’impopolarità di Trump non si traduce automaticamente in perdita di potere parlamentare.

Presidenti deboli nei sondaggi hanno quasi sempre pagato un prezzo alle elezioni di metà mandato, quando l’elettorato tende a bilanciare il potere. Harry Truman, che nel 1946 vide i democratici perdere entrambe le Camere in uno dei peggiori tracolli del dopoguerra, riuscì due anni dopo a rimontare con la celebre whistle-stop campaign, un tour in treno attraverso il Paese che lo trasformò da presidente screditato a simbolo di resilienza politica. 

Bill Clinton conobbe una parabola simile: dopo la disfatta del 1994, con Newt Gingrich e i repubblicani che conquistarono la Camera per la prima volta in quarant’anni, seppe riorganizzarsi e fu rieletto nel 1996 grazie a un messaggio centrato su crescita economica e pragmatismo. Ma ci sono anche i casi in cui l’impopolarità si è trasformata in condanna definitiva. Jimmy Carter, schiacciato da inflazione e crisi degli ostaggi in Iran, perse nel 1980 contro Ronald Reagan. George H. W. Bush, nonostante la vittoria militare in Iraq, vide precipitare il suo consenso sotto il peso della recessione e fu sconfitto da Clinton nel 1992 anche a causa del terzo candidato populista Ross Perot.

Prima di pensare a eventuali scenari di rimonta e a un nefasto terzo mandato che Trump non ha mai escluso nei suoi discorsi, la storia ci dice che un presidente che va male nella prima parte del mandato viene quasi sempre punito alle elezioni di metà termine. La logica americana è che il midterm funzioni da correttivo, ridimensionando il potere di chi siede nello Studio Ovale. L’incognita è se questa regola resista anche nell’era della polarizzazione rigida e del gerrymandering aggressivo, o se l’eccezione Trump segnerà una rottura definitiva con la tradizione.

La risposta non è rassicurante. Nella seconda metà del Novecento, una parte consistente dell’elettorato era disposta a cambiare campo, mentre oggi il voto è consolidato in blocchi quasi impenetrabili. Con distretti ridisegnati per ridurre al minimo la competizione e con un’opinione pubblica divisa lungo linee tribali, il calo di popolarità non si traduce automaticamente in perdita di potere. 

Trump governa con un consenso minoritario, stabile attorno al trentasette-trentotto per cento, ma profondamente radicato e protetto da istituzioni che non riescono a trasformare l’impopolarità in conseguenze politiche immediate. In un sistema così polarizzato, persino un presidente largamente respinto dall’opinione pubblica può continuare a dominare la scena, finché i suoi avversari non trovano un modo per ridefinire il terreno della contesa.

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