Yvett Merino e il nuovo fronte invisibile di Hollywood
Quando Yvett Merino è arrivata a Roma per presentare Zootropolis 2, la sua presenza ha chiarito subito che questo film non è solo il ritorno di una coppia di protagonisti amati: è un nuovo capitolo in una riflessione più ampia su come Hollywood debba raccontare un mondo diventato improvvisamente fragile, diviso, ipersensibile.
Merino, produttrice premio Oscar e voce sempre più influente nell’animazione Disney, a Roma ha parlato con un tono che non aveva nulla di promozionale. Sembrava più una discussione sul ruolo del cinema in una fase storica tesa. «Il primo Zootropolis parlava di pregiudizio e discriminazione. Non sono temi che si esauriscono. Tornarci significava affrontarli con più profondità, senza paura di mostrare le parti scomode dei personaggi».
Questa profondità è evidente soprattutto nella scelta più sorprendente del film: la terapia. Judy e Nick finiscono letteralmente su un lettino. Merino lo ha rivendicato come una scelta narrativa necessaria: «La terapia serve. Serve nella vita e serve a loro. È il luogo in cui ammettono cosa provano davvero, dove le parti che non funzionano del loro rapporto vengono finalmente dette. Non volevamo eroi perfetti. Volevamo persone credibili, anche se sono animali».
È una frase che dice tutto sul suo approccio: niente metafore facili, niente scorciatoie emotive. La terapia diventa un linguaggio universale, capace di parlare a un pubblico globale senza urtare nessuna sensibilità culturale, ma senza annacquare ciò che significa davvero essere vulnerabili.
La stessa logica si ritrova nel personaggio più rischioso del film: Gary, una vipera trasformata in figura profondamente empatica. Merino lo ha spiegato così: «I serpenti, in quasi tutte le culture, sono visti come il male. Mi interessava capire cosa succede a un personaggio quando cresce con questo stigma addosso. Gary è buono, ma il mondo vede prima il suo veleno. E questo lo segnala subito».
È un ribaltamento di un archetipo universale, e Merino sa che questo tipo di scelte non sono più semplici operazioni creative. Sono scelte culturali. «Volevamo dire che nessuno è condannato dal ruolo che gli altri decidono per lui».

In un’epoca in cui Hollywood è spesso accusata di fare film filtrati dalle esigenze del mercato e dalle pressioni geopolitiche, questa è una delle dichiarazioni più forti che potrebbe fare una produttrice Disney.
A Roma, Merino ha raccontato con precisione anche il modo in cui è stato costruito il mondo del film. Ha insistito sulla necessità di non replicare luoghi reali, evitando qualunque riferimento esplicito a città riconoscibili. «La nostra Zootropolis deve essere un mondo a sé. Non volevamo somigliare a nessun luogo specifico, perché oggi ogni dettaglio può essere interpretato come un’allusione. Preferivamo concentrarci sulle emozioni, non sulle geografie».
Il risultato è una città più stratificata, più caotica, più densa di dettagli del primo film. E non è un caso: Merino ha spiegato che le piace un mondo in cui “la storia principale non è mai la sola cosa che accade: anche nei margini dello schermo c’è vita, conflitto, relazioni”. È la sua idea di complessità: non un concetto astratto, ma qualcosa che si vede davvero a occhio nudo.
Alla fine della presentazione romana, era evidente che Zootropolis 2 non è, per Merino, un film nato per compiacere un pubblico globale, ma per interrogare quel pubblico senza farlo sentire messo sotto esame. «Il nostro obiettivo non è dire al pubblico cosa deve pensare. Il nostro obiettivo è creare un mondo in cui possa riconoscersi — anche nelle parti che non gli piacciono».
Zootropolis 2, in uscita in tutto il mondo il 27 novembre, non è solo il ritorno di due personaggi amati, è la dimostrazione che l’animazione può ancora essere un luogo dove si parla del mondo senza gridarlo, senza moralismi, e senza cedere alle pressioni che vorrebbero trasformare ogni storia in una linea di frattura culturale.
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