Cgil e Lega sono di nuovo allineate sulle pensioni

Settembre 28, 2025 - 03:30
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Cgil e Lega sono di nuovo allineate sulle pensioni

Non è la prima volta. Ma anche stavolta, alla vigilia della nuova legge bilancio, la Cgil di Maurizio Landini e la Lega di Matteo Salvini sono perfettamente allineati in tema di pensioni. E l’obiettivo comune ora è il congelamento dell’età pensionabile a sessantasette anni, evitando di far scattare l’adeguamento automatico alla speranza di vita che da gennaio 2027 aggiungerebbe altri tre mesi ai requisiti per lasciare il lavoro.

Il governo guidato da Giorgia Meloni sta valutando l’ipotesi. Il ministro leghista dell’Economia Giancarlo Giorgetti, in teoria, si è detto favorevole a un congelamento di due anni da inserire già nella prossima manovra e sarebbe alla ricerca delle coperture per accontentare il suo partito. Anche se, «procedendo con una barca a remi» (parole usate dal ministro il 24 settembre in Senato), ogni decisione deve tenere conto del «quadro economico complessivo».

I costi di un congelamento oscillerebbero, secondo l’Inps, attorno a un miliardo di euro l’anno. L’Ufficio parlamentare di bilancio ha parlato di 3-4 miliardi complessivi, stimando che i costi previdenziali aumenterebbero dello 0,4 per cento del Pil da qui al 2040. Inoltre, il rapporto debito/Pil dell’Italia salirebbe al 139 per cento entro il 2031, sette punti percentuali in più rispetto alle attuali previsioni.

Oltre alla Lega, intanto, anche la Cgil va in pressing. Già la scorsa primavera, accanto alla campagna per il referendum “anti Jobs Act” di giugno, poi fallito, il sindacato guidato da Maurizio Landini aveva lanciato la proposta per la revisione del meccanismo di adeguamento dell’età pensionabile con lo slogan “Pensioni mai? Adesso basta!”. Era stata la Cgil, infatti, a denunciare l’aumento dei requisiti pensionistici sui programmi gestionali dell’Inps, poi costretta a fare marcia indietro anche dallo stesso governo. Con Palazzo Chigi preso in contropiede che aveva promesso un decreto, mai arrivato, per bloccare l’adeguamento automatico.

Il meccanismo di adeguamento dell’età in cui si va in pensione all’aspettativa di vita, introdotto nel 2010 dal governo Berlusconi – ma diventato pienamente operativo con la riforma Fornero del 2011 – prevede che ogni due anni l’Istat comunica l’incremento dell’aspettativa di vita e in maniera automatica cresce anche l’età minima della pensione di vecchiaia (oggi a sessantasette anni) e di quella anticipata (oggi a quarantadue anni e dieci mesi di contributi per gli uomini, uno in meno per le donne).

Questo sistema nel corso degli anni ha garantito la tenuta, comunque fragile, della spesa previdenziale italiana, aggravata per giunta dalla crisi demografica. Solo ai tempi del Covid, per la prima volta in assoluto, l’aspettativa di vita è scesa, per poi risalire.

Ma lo scatto in avanti dell’età pensionabile è sempre stato un passaggio politico indigesto per il governo di turno che si è trovato la patata bollente tra le mani. E la polemica è sempre la stessa, con l’Inps che pubblica le tabelle aggiornate e finisce nel polverone, e i sindacati che sollecitano la politica a intervenire e bloccare l’aumento.

Già nel 2019, il governo gialloverde Lega-Movimento Cinque Stelle aveva congelato l’aumento automatico dei requisiti per il pensionamento anticipato fino al 2026. Il governo Meloni ha reintrodotto il meccanismo dal 2025, ma senza effetti immediati, visto che l’Istat ha certificato un’aspettativa di vita stabile e dunque i requisiti sono rimasti invariati almeno fino al 2026.

Il problema ora si aprirà dal 2027, con le prossime elezioni politiche alle porte. Da gennaio 2027, scatterà in automatico un incremento di tre mesi, portando i requisiti della pensione di vecchiaia a sessantasette anni e tre mesi e quelli per la pensione anticipata a quarantatré anni e un mese per gli uomini e quarantadue anni e un mese per le donne.

Non si tratta di un grosso aumento. Ma il problema è il solito, ovvero che questo scatto creerà quarantaquattromila cosiddetti “nuovi esodati”, ovvero quei lavoratori che hanno concordato un’uscita anticipata con il datore di lavoro, contando su requisiti certi al momento del pensionamento. Lo slittamento in avanti li lascerebbe per tre mesi senza stipendio, senza pensione e senza contributi.

«Ho già parlato con il ministro Giorgetti incontrando la sua disponibilità a inserire il provvedimento all’interno della legge di bilancio», assicurava a fine agosto il sottosegretario al Lavoro, Claudio Durigon, dal Meeting di Rimini. Si era parlato di introdurre delle nuove mini-finestre di uno o due mesi, con lo stesso meccanismo adottato per Quota 103.

Ora, con la legge di bilancio che si avvicina, si scaldano i motori e la questione si ripropone. Lega e Cgil chiedono un blocco dello scatto per tutti. I sindacati chiedono di ferma quella definiscono una «ghigliottina automatica». E la Lega, da sempre contraria alla riforma Fornero, spinge per il congelamento. «Collegare l’età pensionabile all’aspettativa di vita è una politica bestiale verso i lavoratori», ha detto al Financial Times Claudio Durigon, ricordando i casi di operai costretti a turni pesanti fino a età avanzata.

Il governo è di fronte a un bivio. Potrebbe esonerare i 40mila esodati dall’incremento previsto, con un costo limitato di qualche centinaio di milioni. Oppure sospendere nuovamente per tutti l’adeguamento automatico, il che costerebbe fino a 3-4 miliardi, ma sarebbe molto più «spendibile» dal punto di vista elettorale. Riproponendo così il copione del passato – come ha scritto Marco Leonardi – ovvero quello di proteggere chi è vicino alla pensione, scaricando l’onere del debito sulle generazioni più giovani, per giunta mandando un messaggio negativo ai mercati e alla Commissione europea.

Il problema sono le coperture e la tenuta dei conti dell’Inps. Tito Boeri, ex presidente dell’Inps, ha avvertito che scollegare l’età pensionabile dall’aspettativa di vita peserebbe gravemente sul debito pubblico italiano. «Questo meccanismo è molto prezioso e non dovrebbe essere modificato… altrimenti le conseguenze per il debito pubblico italiano saranno piuttosto drammatiche», ha detto.

Proprio lo scorso 23 settembre, il presidente dell’Inapp, Natale Forlani, nel corso di un’audizione davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sugli effetti legati alla transizione demografica, ha spiegato che nei prossimi dieci anni usciranno dal lavoro circa 6,1 milioni di italiani. «Un vero e proprio esodo generazionale che rischia di lasciare il Paese senza ricambio e di mettere in crisi la tenuta del welfare», ha detto.

Solo nel 2024, la spesa pensionistica è salita a 320 miliardi, quaranta in più del 2023, con le entrate ferme a 284 miliardi. E nonostante l’età pensionabile italiana sia tra le più alte in Europa, a causa delle leggi passate, tra sistema retributivo e pensioni anticipate, in realtà solo il 46 per cento degli italiani tra i 50 e i 74 anni lavora realmente, uno dei tassi più bassi del continente.

Nel 2040 la cosiddetta «gobba previdenziale» toccherà il suo picco massimo al 17 per cento del Pil, con l’entrata a pieno regime del contributivo puro e la discesa del peso della previdenza sui conti pubblici. Fino ad allora, però la contabilità nazionale si muoverà sul filo del rasoio.

Finora, il governo Meloni si è mosso con grande cautela nella tenuta dei conti pubblici, tra la prudenza di Giorgetti e i benefici del fiscal drag. Tanto da anticipare l’obiettivo del deficit sotto il 3 per cento, meritandosi la promozione di Fitch a BBB+, con il costo di finanziamento del debito italiano ormai simile a quello della Francia.

Con le prossime elezioni nazionali in arrivo nel 2027, però, gli analisti temono che il governo Meloni possa essere tentato ora da misure populiste che finora ha evitato. «Temo che, avvicinandosi alla data delle elezioni», ha detto Tito Boeri, «rinunceranno all’unica cosa buona fatta in tutti questi anni, cioè essere prudenti, e inizieranno a fare sciocchezze».

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Redazione Redazione Eventi e News