Ci sono speranze di pace per Gaza e la Palestina? Il pessimismo domina, quadro allarmante

Ottobre 19, 2025 - 16:00
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Ci sono speranze di pace per Gaza e la Palestina? Il pessimismo domina, quadro allarmante

Ci sono speranze di pace per Gaza e la Palestina? Il pessimismo domina. Due articoli disegnano un quadro allarmante: gli argomenti sono convincenti.

L’autore è Gregg Roman, direttore del Middle East Forum, di destra e filo israeliano. Sono stati pubblicati su l’informale.eu rispettivamente il 30 settembre e il 13 ottobre (tradotti da Niram Ferretti e Angelita La Spada).
Già dal titolo del primo articolo la posizione dell’autore appare evidente: “La genialità del piano Trump per Gaza risiede nel suo fallimento inevitabile”. Il piano del presidente Donald Trump per porre fine al conflitto di Gaza non è una proposta di pace; è una dichiarazione di guerra all’illusione strategica.

La vera genialità del piano non risiede nel suo potenziale di successo, ma nel suo fallimento predeterminato. È un test finale e chiarificatore, progettato per smascherare i nemici di Israele, smascherare i loro protettori e fornire una giustificazione per l’unica politica in grado di portare una pace duratura nella regione.

La pace duratura non è il prodotto di un’intesa condivisa; viene imposta a un nemico sconfitto, la cui volontà di combattere è stata spezzata.

Il percorso per trasformare Giappone e Germania in pacifiche democrazie dopo la Seconda Guerra Mondiale ha richiesto la loro resa incondizionata e la trasformazione della società

A prima vista, la proposta di Trump offre a Hamas un ponte d’oro verso la resa. Offre un cessate il fuoco, un massiccio scambio di prigionieri, l’amnistia per i combattenti che si disarmano e uno sforzo internazionale multimiliardario per ricostruire Gaza. È una via d’uscita da una guerra che Hamas ha iniziato e non può vincere, un’alternativa superficialmente attraente alla propria distruzione.

Il ruolo di Hames a Gaza

Ci sono speranze di pace per Gaza e la Palestina? Il pessimismo domina, quadro allarmante
Ci sono speranze di pace per Gaza e la Palestina? Il pessimismo domina, quadro allarmante – Blitzquotidiano.it (foto da video)

Hamas, scrive Roman, non è un attore razionale che persegue obiettivi politici negoziabili; è un culto ideologico della morte, un movimento totalitario la cui intera identità si fonda sul rifiuto genocida dell’esistenza di Israele. Mentre i suoi leader ora affermano che rivedranno il piano in “buona fede”, l’asse del rifiuto ha già mostrato le sue carte. I suoi alleati, come la Jihad Islamica, hanno denunciato la proposta, e i delegati dell’Iran l’hanno definita un “complotto”. Il piano di Trump esige che Hamas si disarmi, rinunci al suo potere e accetti una realtà di coesistenza pacifica. Per Hamas, questo non è un compromesso; è un atto suicida. Il loro rifiuto è una certezza, ed è questa certezza che conferisce al piano il suo vero valore.

Quando Hamas dirà di no, metterà il suo principale sostenitore, il Qatar, in una posizione impossibile. Per anni, i qatarini hanno giocato un doppio gioco, presentandosi all’Occidente come mediatori indispensabili e, allo stesso tempo, agendo come principali finanziatori e protettori ideologici di Hamas e della Fratellanza Musulmana globale. Con un’ampia coalizione di ministri degli esteri arabi e musulmani che accolgono pubblicamente con favore l’impegno americano, la pressione sul Qatar affinché consegni un Hamas compiacente è immensa. Il suo fallimento sarà un’umiliazione globale, che lo mostrerà come non disposto o incapace di controllare il suo mandatario. Questo è il momento di spezzare finalmente l’asse Hamas-Qatar.

Il “no” di Hamas?

Quando Hamas rifiuterà questa ultima, generosa offerta di resa, fornirà a Israele la chiarezza morale e la legittimità internazionale per offrire l’unica alternativa. La promessa del Primo Ministro Benjamin Netanyahu di “finire il lavoro” non sarà più una minaccia; sarà una necessità, e una con il “pieno appoggio” di Trump.

Questo piano non riguarda il processo di pace; riguarda la fine del processo di pace, una frode strategica che ha premiato il rifiuto palestinese per trent’anni.

Costringendo Hamas a rifiutare una via verso la vita, il piano Trump apre la strada alla necessaria fine del gruppo.

È l’atto finale di un teatro dell’assurdo, e il suo fallimento sarà l’apripista per un ordine nuovo e più realistico, costruito non sulle sabbie mobili dell’illusione diplomatica, ma sul fondamento di una vittoria israeliana.

Dopo la firma del patto e ancora prima della finora incompleta attuazione della prima fase degli accordi, veniamo ai problemi che si presentano con la seconda fase.

La seconda fase dovrebbe riguardare il disarmo di Hamas, il completo ritiro israeliano e il futuro politico di Gaza.

Ogni precedente storico indica che la Fase Due crollerà sotto il peso delle sue contraddizioni, lasciando Israele in una posizione peggiore rispetto a prima del cessate il fuoco, mentre Hamas ricostituirà le proprie capacità e dichiarerà la propria vittoria strategica.

Israele ha scelto il peggiore dei due approcci: garantire ad Hamas la  legittimità attraverso i negoziati, pur non avendo il potere necessario per imporre il rispetto degli obiettivi dichiarati dell’accordo.

La complessità del piano in 20 punti annunciato dal presidente Trump  è evidente, ma non la sua attuabilità. Il piano prevede che Hamas non possa avere alcun ruolo, diretto, indiretto o inqualsiasi altra forma, nella futura governance di Gaza, richiedendo al contempo che Hamas rilasci gli ostaggi, coordini i ritiri e accetti la sostituzione tecnocratica. Questa logica circolare presuppone che Hamas faciliterà il proprio scioglimento.

Consideriamo le disposizioni relative al disarmo. Il quadro di pace proposto da Trump richiede la completa demilitarizzazione, con la distruzione di tutte le infrastrutture militari sotto la supervisione internazionale e la messa fuori uso definitiva delle armi.

La risposta di Hamas del 3 ottobre ha accettato il rilascio degli ostaggi e la transizione di governance, ma non ha fatto alcun riferimento al disarmo. L’alto funzionario di Hamas Mousa Abu Marzouk ha dichiarato esplicitamente: “Consegneremo le [nostre] armi al futuro Stato palestinese, e chiunque governerà Gaza avrà le armi in mano”. Quando gli è stato fatto notare che Israele aveva già distrutto la maggior parte delle capacità di Hamas, Abu Marzouk ha risposto: “Se hanno distrutto il 90 per cento delle capacità militari di Hamas e ucciso la maggior parte dei combattenti di Qassam, come dice il presidente Trump, di chi sono le armi che volete disarmare?”

Questa domanda retorica mette in luce la contraddizione centrale dell’accordo. Se Hamas è stata sconfitta militarmente nella misura dichiarata, allora il disarmo diventa superfluo o impossibile: superfluo se le capacità non esistono più, impossibile se le armi sono sepolte sotto le macerie o distribuite tra cellule decentralizzate.

Se Hamas conserva una capacità militare significativa, allora possiede un mezzo di pressione per resistere al disarmo e utilizzerà il periodo di cessate il fuoco per ricostituirsi. In entrambi i casi, la clausola sul disarmo esiste solo sulla carta, senza meccanismi di attuazione al di là della ripresa delle operazioni militari, il che non farebbe altro che riportare entrambe le parti allo status quo precedente al cessate il fuoco.

La transizione di governance presenta problemi simili. Ad Hamas è stato chiesto di farsi da parte per lasciare spazio a un “comitato tecnocratico palestinese composto da palestinesi qualificati ed esperti internazionali”, supervisionato da un “Consiglio di Pace” presieduto da Trump e comprendente l’ex primo ministro britannico Tony Blair.

Hamas ha immediatamente respinto questo assetto. Abu Marzouk ha dichiarato: “Non accetteremo mai che sia qualcuno che non è palestinese a  controllare  i palestinesi”, opponendosi specificamente a Blair dato il suo ruolo nella guerra in Iraq del 2003. L’Autorità Palestinese, che dovrebbe assumere il controllo in attesa delle riforme, rimane debole, corrotta e profondamente impopolare. Il presidente Abbas, 89 anni e al ventesimo anno del suo  mandato quadriennale, ha definito i membri di Hamas “figli di cani”, in quanto privi della capacità di governare il territorio che controllano.

La sequenza del ritiro israeliano amplifica queste contraddizioni. Netanyahu ha sottolineato ripetutamente nella sua intervista del 5 ottobre che “Israele effettua un ritiro tattico, e rimane a Gaza”.

Tuttavia, il leader di Hamas Khalil al-Hayya chiede il ritiro completo dalla Striscia di Gaza con “garanzie reali” che la guerra finisca definitivamente. Il piano di Trump afferma che il ritiro sarà “basato su standard, tappe fondamentali e tempistiche concordati e legati alla demilitarizzazione”, un linguaggio che non risolve nulla poiché la demilitarizzazione stessa rimane controversa. Israele non si ritirerà completamente finché Hamas non deporrà le armi; Hamas non deporrà le armifinché Israele non si ritirerà completamente. Non si tratta di una differenza negoziabile, ma di una contraddizione esistenziale che nessun linguaggio diplomatico può risolvere.

Poi, il 4 ottobre, Netanyahu ha ordinato lo stopdell’offensiva in seguito all’appello pubblico di Trump a Israele di “cessare immediatamente i bombardamenti su Gaza”.

Questa decisione, presa nel momento di massimo vantaggio per Israele, rappresenta il punto di svolta cruciale della guerra. Anziché completare l’operazione e negoziare da una posizione di assoluto dominio, con la leadership di Hamas isolata e le infrastrutture distrutte, Israele ha accettato un cessate il fuoco che preserva la struttura organizzativa di Hamas e offre un margine di manovra per la ricostituzione.
Le guerre non finiscono quando una delle parti non è più in grado di combattere, ma quando accetta di non poter vincere. Questa dimensione psicologica, ossia la convinzione dell’avversario che continuare a resistere sia inutile, conta più dei dati relativi al campo di battaglia.

L’accettazione da parte di Hamas del quadro proposto da Trump rappresenta un adeguamento pragmatico alla realtà del campo di battaglia, non una sconfitta psicologica. L’organizzazione è sopravvissuta, la sua leadership continua a operare da Doha, il suo comandante militare è ancora vivo a Gaza ed è riuscita a costringere Israele a negoziare nonostante controllasse solo un quarto del territorio. Dal punto di vista di Hamas, il cessate il fuoco rappresenta un successo strategico: ha attaccato Israele, uccidendo 1.195 israeliani, tra cui 815 civili, ha preso 251 ostaggi, ha scatenato una guerra che ha distrutto gran parte delle infrastrutture di Gaza, eppure ne è uscita con la capacità di negoziare i termini e la sopravvivenza organizzativa intatta.

Il comitato direttivo temporaneo di cinque membri con sede a Doha continua a governare Hamas, con Khaled Mashal, Khalil al-Hayya e altri che operano apertamente in Qatar. Le elezioni per la leadership, rinviate a causa della guerra, alla fine si terranno garantendo continuità.

La leadership esterna di Hamas e rimasta intatta, avverte Roman, ben finanziata e trattata come un legittimo partner negoziale da vari attori internazionali. Il precedente degli incontri tra funzionari dell’amministrazione Trump e rappresentanti di Hamas e mediatori arabi per facilitare le discussioni garantisce all’organizzazione la legittimità che ha cercato per decenni.

Sebbene alcuni abitanti di Gaza abbiano manifestato contro il governo di Hamas con slogan come “Fuori, fuori, fuori Hamas”, e i sondaggi del maggio 2025 abbia mostrato un consenso del 48 per cento per le manifestazioni anti-Hamas, l’organizzazione continua a godere di un significativo sostegno ideologico. La macchina propagandistica di Hamas attribuirà le disposizioni umanitarie del cessate il fuoco (aumento degli aiuti, fondi per la ricostruzione, ripristino dei servizi) al loro successo negoziale piuttosto che alla moderazione di Israele o alle pressioni internazionali.

L’obiettivo dichiarato di Israele all’inizio di questa guerra era quello di eliminare Hamas come forza militare e di governo. Due anni dopo, Hamas non governa più nulla, ma esiste come organizzazione politico-militare in grado di schierare combattenti, negoziare accordi e imporre la propria lealtà. Ciò rappresenta la sconfitta degli obiettivi di guerra di Israele, indipendentemente dai successi militari tattici.

Hamas è molto più che un gruppo di militanti armati nascosti nei tunnel. Nei 18 anni in cui ha governato Gaza dal 2007, ha costruito un’infrastruttura istituzionale completa che influisce su ogni aspetto della vita palestinese: istruzione, sanità, servizi sociali, istituzioni religiose, media, amministrazione civile e attività economica. Questa profondità istituzionale spiega la resilienza di Hamas,nonostante la decapitazione della leadership e il degrado militare. Per distruggere l’organizzazione è necessario smantellare queste istituzioni e sostituirle con alternative che aiutino la popolazione di Gaza senza dare potere ai terroristi. L’accordo di cessate il fuoco presuppone che questa transizione possa avvenire attraverso una sostituzione tecnocratica supervisionata da osservatori internazionali.

L’esperienza storica suggerisce il contrario, afferma Roman. E conclude. Gli ostaggi torneranno a casa. Gaza sarà ricostruita. Il cessate il fuoco avrà una durata temporanea. La seconda fase dei negoziati inizierà con la dovuta serietà diplomatica. E a un certo punto, tra settimane, mesi, forse un anno, le contraddizioni fondamentali insite in questo accordo emergeranno, poiché Hamas si opporrà al disarmo, Israele rifiuterà il ritiro completo, le strutture di governo si dimostreranno inadeguate ed entrambe le parti si prepareranno a un nuovo conflitto. Quando arriverà quel momento, Israele dovrà scegliere tra accettare un accordo inadeguato che preserva la minaccia terroristica o portare a termine la missione resa necessaria dal 7 ottobre.

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