“Ci torturavano e sentivamo le bombe cadere su Gaza”. Pietro racconta il suo sequestro: “Ma ora la battaglia continua qui”


Genova. “Il trattamento che abbiamo ricevuto non può essere definito altrimenti se non tortura. Ma è una minima parte rispetto a quello che ogni giorno subiscono i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane. Oggi hanno intercettato di nuovo in acque internazionali la Thousand Madleens flotilla e sequestrato 150 attivisti. Questo non è il momento di mollare ma anzi di continuare. Continuare fino a che in qualche modo gli Stati finiscano di avere accordi con l’entità sionista, accordi militari ed economici”.
Con questa determinazione di Pietro Queirolo Palmas, 23 anni, imbarcatosi lo scorso mese sulla Global Sumud Flotilla per prendere parte alla missione umanitaria che ha tentato di rompere il blocco navale che Israele ha imposto alla popolazione palestinese di Gaza, racconta i momenti del sequestro avvenuto, a meno di 100 miglia dalle coste della Striscia: la flotta è stata di fatto abbordata dalla marina militare israeliana, in violazione al diritto internazionale, e gli attivisti portati a terra per essere internati nelle carceri di massima sicurezza del paese.
Pietro, che oggi era al presidio genovese dopo l’intercettazione della Freedom flotilla (la seconda ondata di attivisti soprattutto medici che hanno cercato di arrivare a Gaza) ricorda passo dopo passo quello che ha visto e vissuto: “Abbiamo ricevuto privazione del sonno. Nel viaggio la strategia del caldo freddo, tipo strumento di tortura con persone che sono state male tra cui il capitano della mia barca che ha 72 anni”.
Nel piazzale Pietro ha preso anche lui “quattro o cinque calci“, ha subito l’intimazione di “non alzare la testa, sennò te la abbassavano a forza”, e le vere e proprie minacce con un militare che in inglese lo minacciava urlando: “Sono pazzo, posso ammazzarti“.
In carcere poi “nessun tipo di assistenza medica. Anzi, hanno ritirato i medicinali a tutti gli attivisti e le attiviste della flottiglia, gente che soffriva diabete, non ha avuto possibilità di utilizzare la propri medicinali, gente con l’asma e stato ritirato il la fiala per potersi curare in caso di attacco – racconta ai microfoni di Genova24 – Abbiamo chiesto un trattamento umano, che non c’è mai stato”. Ore e giorni di paura, accompagnate dai rumori del dramma umanitario che a Gaza non si è mai fermato: “E all’interno delle celle sentivamo gli aerei che andavano a bombardare Gaza – aggiunge – Quando siamo stati intercettati alle 7 del mattino la mia imbarcazione era in vista delle coste, e vedevamo i bombardamenti su Gaza, vedevamo le esplosioni, sentivamo il rumore delle bombe. Dal mare è netta la differenza dello skyline che cambia dai grattacieli di Israele alle macerie della Striscia”.
Hai mai avuto paura? “Si, il momento in cui ho avuto più paura è stato il passaggio dall’imbarcazione al porto dove ci hanno separato e messo a terra, inginocchiati – aggiunge – Passavano, ci tiravano schiaffi, ci trascinavano da un punto all’altro in maniera violenta. E’ arrivato Ben Gvir – ministro della sicurezza nazionale – a indicarci a favore di telecamere dicendo che eravamo terroristi, per la loro propaganda. Quando sono uscito dall’imbarcazione ho provato a difendere un una compagna che le stavano strappando violentemente una kefia, ho provato a far sentire la mia voce e semplicemente per aver detto di essere meno violenti mi hanno tirato pugni, calci per diversi minuti“.
Un trattamento disumanizzante ma in qualche modo “privilegiato” se così si può dire: “Ovviamente essendo bianco europeo non ho avuto lo stesso trattamento che hanno avuto invece compagni e compagne del mondo arabo e soprattutto palestinesi in cui il pestaggio è durato anche decine di minuti. In cella mi raccontavano che hanno visto un compagno arabo essere pestato per 15 minuti e che dopo aveva tutte le costole e tutto il fianco distrutto. Sapevo che non ero in pericolo di vita, che avevamo gli occhi del mondo addosso, però sì, ho avuto paura“.
Pietro racconta anche la “confusione” diplomatica e legale della situazione: “Dopo questo trattamento disumano e umiliante hanno assegnato a ognuno di noi un un poliziotto che ci ha fatto seguire tutto un loro iter -spiega – all’interno della struttura del porto, sono iniziate le perquisizioni, poi semplicemente ci chiedevano se eravamo mai stati in Israele, domande su per quale motivo eravamo qua. Dopo tutto questo abbiamo incontrato un giudice con un traduttore e in alcuni casi anche avvocati. I traduttori non sempre venivano forniti nella lingua che tu chiedevi e quando richiedevi l’avvocato non sempre ti veniva assegnato e lì abbiamo firmato o non firmato questi fogli. Il primo foglio era quello da non firmare per nessuno che era quello che in cui ti dichiaravi colpevole di essere entrato in maniera illegale in Israele, cosa non vera, perché ci hanno sequestrato in acque internazionale. Poi il secondo foglio era invece per richiedere il rimpatrio volontario. Inizialmente non ho firmato. Poi nelle ore successive abbiamo incontrato la console che ci ha consigliato di farlo, io ho alzato la mano ma poi nessuno mi ha più raggiunto in cella“.
Durante la sua permanenza, Pietro, insieme ad altri attivisti, ha iniziato uno sciopero della fame e della sete, in solidarietà con gli altri detenuti palestinesi. “Era un modo per fare ancora più pressione sul governo israeliano e per chiedere la fine del genocidio del popolo palestinese, la fine dell’apartheid”.
Poi il ritorno in libertà, arrivato all’improvviso: “Quando ci spostavano le guardie non cu dicevano mai dove stavamo andando. La sera prima del rilascio mi hanno trasferito dalla mia cella in un’altra cella con altri compagni e avevo più o meno intuito perché tramite altri attivisti greci sapevamo che il giorno dopo sarebbe partito un aereo per per andare ad Atene. Sicuramente è stato un momento bello perchè sapevo che avrei rivisto la mia famiglia. E soprattutto perché sapevo che avrei potuto continuare la lotta che abbiamo iniziato là e che ora dobbiamo portare avanti qua“.
Lo rifaresti? “Rifarei tutto, ora la mobilitazione non deve terminare, dobbiamo continuare a lottare per far terminare gli accordi economici che partendo da qua, da noi, permettono il compimento di questo genocidio”.
A chi gli chiede come può proseguire oggi la mobilitazione Pietro dice che è importante “trasformare il lato umano in politico perché la lotta per la Palestina è anche lotta anticolonialista e anticapitalista”. E fa un appello a professori e studenti delle scuole superiori sull’importanza di affrontare temi come quello della collaborazione di qualunque tipo con Israele e con l’industria della guerra compresa Leonardo: “Il giorno che ci hanno intercettati gli studenti del Nautico, la mia ex scuola, mi hanno chiesto di intervenire in collegamento e così ho fatto, ma il preside della scuola invece ha sostenuto la solita tesi del diritto di Israele a difendersi. La mobilitazione e l’attenzione da parte di docenti e studenti è per questo fondamentale in questo momento”.
Qual è la tua reazione?






