Corridoi umanitari, un’intuizione ecumenica

Ottobre 16, 2025 - 00:30
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Corridoi umanitari, un’intuizione ecumenica
Profughi in arrivo dall'Etiopia nel 2019

Da Il Segno di ottobre

Sono passati dieci anni dalla firma, il 15 dicembre 2015, del primo protocollo per i corridoi umanitari tra Sant’Egidio, le Chiese protestanti italiane e i ministeri dell’Interno e degli Esteri. Poche settimane dopo, con voli di linea e in sicurezza, sono arrivate dal Libano le prime famiglie siriane. A giugno 2017, con un ulteriore accordo – questa volta dall’Etiopia per eritrei, somali e sud sudanesi – si è aggiunta la Conferenza episcopale italiana, tramite la Caritas e la fondazione Migrantes.

Da allora quei protocolli sono stati rinnovati, altri ne sono stati firmati (da Pakistan e Iran per gli afghani, dai campi di Lesbo e Cipro, dalla Libia), si sono aggiunti nuovi attori (Arci, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni). Un progetto pilota è stato attivato anche in Francia, Belgio e Andorra. Sono 8.400 i profughi giunti in Italia in dieci anni di corridoi umanitari.

Un punto va da subito sottolineato: Sant’Egidio e le realtà cristiane che hanno avviato i corridoi umanitari non hanno inventato nulla. Da anni, infatti, gli Stati europei (lo dice l’articolo 25 del regolamento dei visti) possono permettere ingressi speciali e legali a fronte di “crisi umanitarie”.

Mai – neanche di fronte alla guerra in Siria, all’avanzata dell’Isis in Iraq o alla caduta di Kabul – hanno scelto di farlo; l’unica eccezione è stata per gli ucraini, dopo l’invasione russa nel 2022. Con i protocolli avviati dal 2015 la società civile, pur con numeri limitati e facendosi totalmente carico dei costi dell’accoglienza, ha spronato l’Italia a non essere indifferente di fronte a popoli stravolti dalla guerra, al ritorno dei talebani, alla dittatura e alle torture dei centri libici.

L’intuizione ecumenica per fendere i muri europei nasce anche dal pianto e dalla preghiera per le tragedie del 3 ottobre 2013 e del 18 aprile 2015 nel cimitero Mediterraneo, dal non rassegnarsi alla “globalizzazione dell’indifferenza”, come la definì papa Francesco a Lampedusa. Proprio Bergoglio attribuiva ai corridoi umanitari un valore profetico, poiché indicano «una strada all’Europa, perché non resti bloccata, spaventata, senza visione del futuro. La chiusura in se stessi o nella propria cultura non è mai la via per ridare speranza».

Lui stesso aprì il corridoio dall’isola di Lesbo: nell’aprile 2016, visitando il più grande campo profughi d’Europa insieme – torna la dimensione ecumenica – al patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I e all’Arcivescovo ortodosso di Atene e di tutta la Grecia, Ieronymos, fece salire ventiquattro profughi siriani sul suo aereo di ritorno e li affidò, in Italia, a Sant’Egidio. Nel 2021, il Papa andò nei campi profughi di Cipro e anche qui ottenne di far partire cinquanta profughi, a cui seguì un nuovo e più ampio accordo.

In un tempo che ha normalizzato la guerra, i corridoi significano volontà di pace. Vogliono anche dire fedeltà alle vittime. Per molti afghani il 2025 è stato l’anno dei rimpatri forzati: 1,4 milioni, secondo l’Onu, quelli decisi tra gennaio e luglio dai governi di Pakistan e Iran. Molti altri temono di essere rimandati nella morsa dei talebani nei prossimi mesi. Tra quanti sperano in un futuro diverso con i corridoi umanitari, ci sono donne destinate alla sottomissione brutale, bambine che dovranno lasciare la scuola, uomini che rischiano la vita per aver collaborato con le forze occidentali. A quattro anni dalla commozione per chi cercava di salire sugli ultimi aerei in partenza da Kabul, sapremo non dimenticarci di loro?

I corridoi umanitari sono un’alternativa possibile ai flussi gestiti dai trafficanti: si arriva con voli di linea, in sicurezza e in modo organizzato. Ma sono anche un modello diverso di accoglienza: diffusa (in una casa, una parrocchia, un istituto di religiose) e non concentrata nei grandi centri, programmata (chi ospita va a Fiumicino ad accogliere la famiglia, a casa si trova un mazzo di fiori e un libro per imparare l’italiano). Attorno alle persone accolte si crea una rete: chi insegna l’italiano, chi fa una donazione, chi spiega dove fare la spesa.

Un cantiere che mostra come tutti – anche i “non specialisti” – possono contribuire a una resistenza concreta ai due mali della guerra e dell’inaccoglienza che, intrecciati tra loro, producono drammi umani e sociali incalcolabili. Emerge – ed è uno dei messaggi culturali delle accoglienze – un’Italia fatta di una geografia umana che non vive di paura, ma crea alternative, coinvolgendo e contagiando positivamente altri, facendo fronte generosamente ai problemi e alle difficoltà dell’integrazione. In alcuni casi persone che non si conoscono si uniscono attorno ai rifugiati, o in alcuni territori vi sono comunità che si riattivano per accogliere, facendo rinascere legami territoriali. Una rete di “nuovi noi” che si deve all’impegno di tanti diversi tra loro. Sono storie positive, a volte anche ambientate in borghi piccoli che non sono mai “minori”. È il modello di accoglienza che caratterizza le storie migliori dei flussi migratori in Italia: l’integrazione, quella che ha avuto più successo, è passata attraverso un “processo adottivo”, fatto di vicinanza personale, di convergenza in percorsi esistenziali e lavorativi, di familiarità. L’integrazione italiana “riuscita” è la somma di milioni di adozioni.

Infine, i corridoi umanitari, che uniscono cattolici ed evangelici, sono un grande progetto di “ecumenismo vissuto” al servizio dei poveri, realizzato da cristiani che si confrontano con la storia e aprono varchi nell’etnocentrismo nazionalista. Una “diaconia dell’accoglienza” che diventa un’icona dei drammi e delle speranze del nostro tempo.

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* Stefano Pasta è giornalista, docente e ricercatore presso il dipartimento di Pedagogia dell’Università Cattolica di Milano, dove è membro del Centro di ricerca sulle relazioni interculturali e del Cremit

 

 

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