Cosa c’è dietro i prezzi stracciati di Shein? La verità che non tutti conoscono

Ammettiamolo, almeno una volta ci siamo cascati tutti. Apri il sito, scorri tra centinaia di vestiti carini a pochi euro, e in pochi minuti il carrello è pieno.
Shein è diventato un riflesso quasi automatico del fast fashion moderno: la promessa di essere sempre aggiornati, senza svuotare il portafoglio. Ma più si guarda da vicino, più la domanda sorge spontanea — come è possibile che un abito costi meno di una pizza? Dietro a quei prezzi ci sono numeri, ritmi e processi che raramente arrivano alla superficie. E che, secondo diverse inchieste, stanno cominciando a mostrare il conto.
Negli ultimi mesi, diversi studi indipendenti hanno riportato dati preoccupanti sulla qualità dei materiali e sulla trasparenza della filiera del colosso cinese. Non si parla solo di moda low cost, ma di un sistema che produce capi in quantità mai viste prima, in tempi record e con un impatto che va ben oltre l’armadio. Da Greenpeace a The Guardian, molte fonti segnalano che parte dei prodotti testati contengono sostanze chimiche oltre i limiti di sicurezza europei, con rischi non solo ambientali ma anche per la salute. E mentre i social continuano a celebrare haul infiniti, si fa strada una verità meno fotogenica: il fast fashion non costa poco, lo pagano altri.
Greenpeace, The Guardian e CBC News: le segnalazioni e i limiti di sicurezza
Il modello di business è costruito sulla velocità. Ogni giorno, migliaia di nuovi prodotti compaiono online, pronti per essere acquistati da un pubblico globale. È una corsa continua che mescola algoritmi, intelligenza artificiale e un’enorme rete produttiva capace di sfornare vestiti a un ritmo che nessun brand tradizionale riesce a eguagliare. Ma dietro quella precisione tecnologica, le ricerche raccontano una realtà più fragile. Secondo Greenpeace, parte dei capi analizzati conteneva piombo, formaldeide e ftalati in quantità superiori ai limiti di sicurezza. Fonti come The Guardian e CBC Newshanno riportato dati simili, specificando che si tratta di analisi indipendenti non direttamente commissionate dal marchio.
I materiali sintetici usati per produrre in massa a costi minimi richiedono trattamenti chimici intensi, che restano nei tessuti e si disperdono nell’ambiente durante i lavaggi. I capi in poliestere, per esempio, rilasciano microplastiche ogni volta che entrano in lavatrice. E mentre i consumatori si godono la soddisfazione di un nuovo outfit da 10 euro, il costo reale si trasferisce altrove: nelle acque contaminate, nei rifiuti tessili e nelle fabbriche che operano a ritmi insostenibili.
L’altro aspetto meno visibile riguarda le condizioni di produzione. Secondo diverse inchieste giornalistiche, Shein si appoggia a una rete estesa di fornitori e subfornitori, difficile da monitorare in modo completo. Questo modello, pur essendo comune nel fast fashion, amplifica il rischio di sfruttamento, mancanza di controlli e scarsa tracciabilità. Il brand ha dichiarato di aver avviato controlli più severi, ma la portata della produzione rende difficile garantire standard elevati su scala così ampia.
Eppure, la formula è perfetta per l’epoca dei social: vestiti sempre nuovi, prezzi bassi, tendenze istantanee. Gli haul su TikTok e Instagram sono diventati parte della routine visiva quotidiana, trasformando lo shopping in un’esperienza di intrattenimento. E mentre il concetto di “indossare una volta e passare oltre” si normalizza, cresce l’idea che la moda sia qualcosa di usa e getta, priva di storia o durata. È un meccanismo psicologico tanto potente quanto invisibile: il piacere immediato dell’acquisto sovrasta la consapevolezza delle conseguenze.
Nel frattempo, anche l’impatto ambientale è sotto i riflettori. L’industria della moda contribuisce per circa il 10% alle emissioni globali di CO₂, più del traffico aereo e navale messi insieme. La produzione intensiva di capi sintetici come quelli venduti da SHEIN consuma enormi quantità d’acqua e produce rifiuti difficili da riciclare. Secondo i dati più recenti, meno dell’1% dei tessuti viene effettivamente riciclato, mentre milioni di tonnellate finiscono in discarica o negli inceneritori ogni anno.
Nonostante le critiche, il marchio continua a crescere, sostenuto da una comunicazione diretta e da un pubblico sempre più giovane, sensibile al prezzo e all’estetica più che alla provenienza. In fondo, la vera domanda non è quanto costa un vestito, ma quanto vale. Se l’unico criterio resta il prezzo, tutto il resto — salute, ambiente, dignità del lavoro — diventa sacrificabile. Forse è arrivato il momento di rimettere le proporzioni al loro posto e guardare la moda con uno sguardo un po’ più lungo, quello che non si ferma alla vetrina ma cerca la storia che c’è dietro ogni filo.
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