Il caso Gallo, e la deriva moralista che soffoca l’autonomia dei tribunali

Settembre 17, 2025 - 21:30
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Il caso Gallo, e la deriva moralista che soffoca l’autonomia dei tribunali

L’altra sera, con vivo stupore, osservavo due autorevoli esponenti militanti del libero pensiero di destra come Nicola Porro e Giuseppe Cruciani commentare con toni da vecchia signora mia di sinistra la sentenza di un malcapitato giudice di Torino. Costui, agli occhi dei due liberali, era colpevole di aver condannato solo a una misera pena di un anno e mezzo un imputato di lesioni alla moglie. Condannato eh, mica assolto e mandato via con pacca sulle spalle. Ciò che scandalizzava i due solitamente irriducibili alfieri del garantismo e dell’anti-wokismo era che l’imputato, evidentemente non militante nella maggioranza di governo, fosse ancora a piede libero, come pure in una società liberale non infrequentemente accade a un soggetto in attesa di un giudizio definitivo.

Probabilmente entrambi erano rimasti impressionati dalle immagini della parte offesa, duramente percossa e diffuse sulla stampa. Evidentemente, anche per due navigati professionisti dell’informazione, l’effetto immagine fa premio sull’approfondimento della notizia e sulla solitamente incrollabile fede garantista. Ciò che non avviene su altri temi, dove l’uso dell’immagine dovrebbe essere altrettanto suggestivo, ma che pure non ha impedito ai due brillanti commentatori sapide e anticonformiste prese di posizione.

Invece, col dovuto rispetto per i due, la vicenda merita più attenzione e approfondimento delle solite quattro parole di circostanza, se non altro perché, alla vigilia del dibattito su Almasri e della stagione sul referendum della giustizia, ripropone il tema scottante della visione politica della magistratura.

Una doverosa premessa: la sentenza firmata dal giudice Paolo Gallo reca duri e ironici riferimenti alla figura della parte offesa, cui ascrive modalità «brutali» di comunicazione al consorte della fine del rapporto matrimoniale e della decisione di andare a vivere con un altro uomo insieme ai figli. Come ha osservato un collega del dottor Gallo, questi si è abbandonato a una «motivazione emotiva». Insomma, ha provato un moto di istintiva empatia per l’uomo che, nella sua valutazione, ha perso la testa e si è abbandonato a una esecrabile, inaccettabile violenza, che il giudice tuttavia ha ritenuto un episodio isolato, secondo i difensori non immotivatamente.

Questi i fatti, come si suol dire, che non sono qui certo in discussione, e per i quali chi scrive prova orrore e riprovazione, ma che non sono il tema di queste poche righe. Il punto cruciale è che il dottor Gallo ha incassato, oltre alle legittime critiche della pubblica opinione, anche quelle del presidente della sua associazione sindacale Anm (Associazione nazionale magistrati), Cesare Parodi, che è pure pubblico ministero del caso. Incurante dello stridente conflitto di interessi derivante dal doppio ruolo, invece di un prudente silenzio, ha preannunciato l’appello nel corso di una trasmissione televisiva, osservando di essere «molto colpito».

E non solo, ha detto che oggetto dell’impugnazione sarà non già esclusivamente la corretta qualificazione dei fatti (reato di maltrattamenti e non di sole lesioni, per cui è pur sempre stata pronunciata condanna), ma addirittura anche «il linguaggio utilizzato». Spiega Parodi che chiederà alla Corte d’appello «se questo genere di argomentazione, non in linea con quei principi espressi anche dalla Corte europea proprio sui criteri di valutazione, sia o meno condivisibile».

Ignoro, a dire il vero (ed è colpa mia), quale sia il precedente giurisprudenziale invocato dal dottor Parodi, ma so per certo che l’uso del linguaggio può essere censurato e finanche oggetto di rilievo disciplinare, ma nei Tribunali e nelle corti ci si dovrebbe occupare solo di reati.

Tuttavia la storia non finisce qui. Lo sventurato Gallo è stato perentoriamente convocato ad horas nientemeno che dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere. La domanda sorge spontanea: per fare che? Dovrà egli discolparsi come un eretico davanti alla santa inquisizione per l’uso di un linguaggio «non in linea con i canoni del politicamente corretto»? O forse dovrà spiegare alla onorevole commissione parlamentare i motivi per cui ha assolto l’imputato dal reato di maltrattamenti e comminato una pena indulgente?

Se è così, sarebbe grave: le motivazioni sono pubbliche e certo il giudice non è a un organo politico che deve rendere conto. Sennò, dove finirebbe la mitologica indipendenza e autonomia del magistrato? Come ci viene costantemente ricordato, le sentenze si impugnano. Eppure la reazione della magistratura associata, per una singolare coincidenza rappresentata dal medesimo dottor Parodi che ha criticato in tv e impugnerà in appello la sentenza del dottor Gallo, ha taciuto, lasciando alla locale sezione torinese un anodino comunicato di stampo forlaniano che nulla osserva sulla evidente invasione di campo.

Sia consentito chiedersi cosa sarebbe successo se, poniamo, la meloniana presidente della Commissione antimafia avesse convocato un presidente dopo la condanna di un noto esponente della maggioranza. Avrebbe l’Anm taciuto in rispettosa attesa?

E ancora, la prudenza, oltre che con la natura dei reati, ha qualcosa a che fare con l’imminente campagna referendaria, per cui si presume sia meglio non deludere le aspettative di quella parte politica che si è schierata con Anm ed è particolarmente sensibile sulla repressione dei reati di genere? Così facendo, tuttavia, Anm rende ragione a chi critica la sua campagna politicizzata sulla riforma della separazione delle carriere, addebitandole di muoversi come partito politico. E in effetti la posizione, imbarazzata e imbarazzante, sul giudice Gallo avvalora questa tesi, perché lo si sacrifica a una convenienza meramente politica, al superiore interesse di una parte.

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