Il trumpismo ha trasfigurato il Partito repubblicano, e tutta la democrazia americana

Settembre 15, 2025 - 08:00
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Il trumpismo ha trasfigurato il Partito repubblicano, e tutta la democrazia americana

Questo brano è tratto dal libro “Insurrezione. Il populismo illiberale che sta facendo a pezzi l’America e la società aperta”, di Robert Kagan, pubblicato da Linkiesta Books. Il volume si può acquistare in libreria oppure qui sullo store, con spese di spedizione incluse.

Il Partito repubblicano di oggi è questo e non quello di Mitch McConnell o di Mitt Romney, i quali, se un tempo in Senato facevano la parte del leone, ora non hanno più influenza di quanta ne abbiamo io o voi sulla direzione presa da quel partito. Trump e i suoi sostenitori ne hanno preso il controllo e ora cercano di conquistare il Paese con ogni mezzo necessario e di porre fine all’esperimento del liberalismo americano.

Ma come è avvenuto che – per la prima volta fin dai tempi, precedenti alla Seconda guerra mondiale, in cui il Sud controllava il Partito democratico – un movimento antiliberale abbia preso il pieno controllo di un grande partito politico americano? In tutto questo ha svolto un ruolo determinante la leadership del Partito repubblicano – o, per meglio dire, tutto questo è avvenuto anche perché la leadership del Partito repubblicano si è rifiutata di svolgere il ruolo che le spettava: infatti è sempre stato compito dei leader di partito controllare gli elementi più destabilizzanti presenti fra le proprie file. A più riprese, nel corso del secolo scorso, entrambi i partiti politici hanno dovuto reprimere le forze antiliberali più estreme che facevano parte della loro coalizione: Franklin D. Roosevelt dovette farlo, ad esempio, con i seguaci di Huey Long; Harry Truman con i Dixiecrats; Eisenhower e Nixon con McCarthy; Goldwater con gli aderenti alla John Birch Society; George W. Bush con la destra islamofoba e anti-immigrati. Lo hanno fatto spesso in modo esitante, in molti casi in ritardo, e sempre nella speranza di riuscire a mantenere gli elettori estremisti pur prendendo le distanze dai loro leader. Ma, fino al 2016, questi movimenti hanno comunque dovuto cercare degli sbocchi al di fuori dei due partiti, attraverso “terzi candidati”, come nel caso di George Wallace e Pat Buchanan, o attraverso movimenti che erano nominalmente al di fuori del sistema politico ma svolgevano su di esso una notevole influenza, come il Ku Klux Klan, la John Birch Society e il Tea Party.

I leader dei Repubblicani, però, soprattutto quando si trovavano all’opposizione, hanno fatto un lavoro sempre più scadente per quanto riguardava il controllo degli elementi più estremi interni al loro partito. Prima durante la presidenza di Bill Clinton e poi durante la presidenza di Obama, l’establishment conservatore repubblicano ha ceduto sempre più la guida del partito agli elementi antiliberali. E, da quando a costoro è stata data briglia sciolta perché scegliessero a loro piacimento quale dovesse essere la natura dell’opposizione ai Democratici, la loro forza all’interno del partito ha continuato a crescere. Ma, invece di reagire, i leader dell’establishment repubblicano si sono semplicemente fatti da parte. Questa mancanza di coraggio e di impegno nella difesa dei principi liberal-conservatori è stata anche determinata da una nuova realtà politica e demografica. Dopo aver opposto inizialmente un po’ di resistenza a Trump, prima che le dimensioni del suo seguito all’interno del partito diventassero chiare, i leader dell’establishment del partito sono poi stati ben felici di cavalcare l’onda di Trump se questo significava essere ripagati con centinaia di nomine di giudici conservatori (tra cui tre dei componenti della Corte suprema), con tagli delle tasse, con restrizioni all’immigrazione e con notevoli riduzioni dei vincoli per le imprese.

Tuttavia, il trionfo di Trump si è configurato anche come un’opa ostile alla precedente leadership dei Repubblicani. La passione del movimento era ed è per Trump, non per il partito. Gli elettori delle Primarie hanno preferito Trump a tutti i diversi “gusti” (da Jeb Bush a Marco Rubio) proposti dall’establishment repubblicano. E, anche dopo l’elezione di Trump, i suoi elettori hanno continuato a considerare i repubblicani dell’establishment come dei nemici. Alcuni eroi di lunga data del partito come Paul Ryan sono stati gettati nel dimenticatoio per aver denigrato Trump. E anche alcuni altri che, come Jeff Sessions, si erano invece trasformati in convintissimi sostenitori di Trump alla fine sono stati comunque trattati come dei malvagi quando non si sono comportati come era stato richiesto dal presidente. I politici di lungo corso che sono riusciti a sopravvivere hanno dovuto trovare un difficile equilibrio: usare il fascino di Trump per far passare l’agenda repubblicana e, nel contempo, controllarne quegli eccessi che essi temevano potessero costituire una minaccia per gli interessi del partito.

La conquista del potere da parte di Trump si è estesa ben al di là della leadership dei Repubblicani. I partiti politici moderni sono un ecosistema composto di gruppi di interesse, di lobbisti, di persone in cerca di incarichi, di donatori che contribuiscono alle campagne elettorali, di intellettuali. Tutti costoro hanno un interesse nel successo del partito e, in ultima analisi, dipendono per il proprio personale successo dall’essere più o meno allineati con le posizioni del partito: per questo hanno dovuto venire a patti anche con Trump. È accaduto, infatti, che alcune pubblicazioni conservatrici che all’inizio si opponevano a Trump ritenendolo inadeguato per la presidenza, come ad esempio la «National Review» diretta da Rich Lowry, abbiano poi invertito la rotta per non perdere lettori e finanziamenti. È accaduto che alcuni opinionisti abbiano dovuto adattarsi al loro pubblico favorevole a Trump – e che siano poi stati ricompensati profumatamente quando lo hanno fatto. È accaduto che alcuni donatori che si erano opposti a Trump durante le Primarie si siano poi allineati, se non altro per poter conservare una certa influenza sulle questioni che stavano loro a cuore. Ed è accaduto che alcuni gruppi di interesse che in precedenza si erano dati da fare affinché il Partito repubblicano si attenesse a determinati principi si siano poi schierati a favore di Trump (o abbiano perso il peso che avevano in precedenza).

Non è sorprendente che i detentori di cariche elettive abbiano avuto via via sempre più paura di opporsi al movimento che aveva condotto Trump al potere. Né è sorprendente che i repubblicani in cerca di un qualche incarico abbiano taciuto oppure, se in precedenza avevano rivolto a Trump qualche critica, si siano poi scusati, esponendosi a una sorta di gogna pubblica. L’ambizione è un potente antidoto alle remore morali. Ma in questo caso non si è trattato solo di ambizione: nel rifiuto da parte dei repubblicani di lungo corso di mettersi di traverso, anche solo temporaneamente, all’avanzata di Trump e della nuova leadership del partito (anche quando questa leadership si è orientata in una direzione antiliberale) ha agito anche un elemento spiccatamente tribale. Particolarmente rivelatore è stato il comportamento tenuto da alcuni anziani statisti repubblicani, ex segretari di Stato ottantenni o novantenni come George Shultz, James Baker e Henry Kissinger, che non aspiravano più a ottenere alte cariche e non avevano apparentemente nulla da perdere nel dire la loro: nonostante la loro nota e profonda avversione per tutto ciò che Trump rappresentava, questi vecchi leoni si sono rifiutati di criticarlo pubblicamente. Non c’è quindi da stupirsi granché se le più giovani stelle dell’establishment repubblicano, che ancora potevano sperare in un futuro nel partito, sono rimaste a loro volta in silenzio, per non alienarsi una parte importante dell’elettorato repubblicano. E poi, quale che fosse il loro giudizio su Trump, quei politici repubblicani di lungo corso detestavano Hillary Clinton, Barack Obama e i Democratici più di quanto detestassero Trump. E, ancora una volta, non si tratta di un fatto insolito. Uno dei motivi per cui i conservatori tedeschi diedero strada a Hitler è il fatto che essi odiavano e temevano i socialisti più di quanto si sentissero ostili ai nazisti, con i quali, dopo tutto, condividevano molti pregiudizi di base.

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