La miglior difesa contro la cancel culture resta il talento, non l’indignazione

«Molte volte abbiamo persino giurato di non mettere più il piede in un cinematografo, specialmente durante la stagione estiva, quando cioè i peggiori prodotti di quest’arte salgono arditamente dalle fogne come i topi dalle chiaviche durante le epidemie». Chi l’ha scritto?
Un critico esasperato, di ritorno da Venezia? Io, dopo aver visto un qualsivoglia film estivo che non fosse un “Mission: Impossible”? La figlia di Woody Allen dopo essere scappata dalla visione di Aronofsky perché al cinema correva tra le sedie una pantegana?
Ennio Flaiano, nell’agosto del 1948, recensendo l’“Enrico V” di Laurence Olivier. Nello stesso articolo si felicitava anche, cento o giù di lì anni prima di Netflix, d’aver potuto ascoltare le conversazioni del film «non funestate dal doppiaggio», e piangeva la morte del cinema giacché in sala «durante l’intervallo ho contato meno di cinquanta persone».
Potrei dirvi che è quindi da quando ho letto questo “Chiuso per noia”, pubblicato da Adelphi, che sospiro che tutto è sempre uguale, che tutti i problemi che ci paiono del presente sono invece copie di mille riassunti. (Il libro tra l’altro contiene una sublime stroncatura di “Via col vento”, che mi ha fatta ridere con le lacrime, e pensare che giornate insopportabili debbano trascorrere coloro che apprezzano solo quelli con cui sono d’accordo, solo quegli interlocutori che non sono interlocutori ma specchi cui somigliare).
Ma in realtà è cominciata un po’ prima, recuperando un Vittorio Gassman che nell’autunno del 1976 viene intervistato dai giornalisti del Tg2, e come prima domanda gli chiedono della crisi del cinema, dell’esoso biglietto da duemilaecinquecento lire. E Gassman lo dice proprio, che è sempre tutto uguale: «Nel ’50 ci fu una crisi peggiore di questa, dalla quale uscirono grandi personalità, come quelle di Fellini, di Antonioni».
Ce l’ha pure col pubblico, colpevole di appassionarsi a «prodotti che richiedono questo scatenato divismo mal collocato» (e non hai visto Instagram, Vittorio), come d’altra parte Flaiano se la prendeva col romanzo di Margaret Mitchell dicendo, settantasei anni fa, che «siamo in un clima in cui la furberia diventa indispensabile e gli effetti sono dosati scientificamente per un pubblico dalle reazioni mediocri ma generose, seppure incontrollate» (e non hai visto, Ennio, i romantasy, chiedo scusa per la crasi del genere semiporno e di quello dei draghi, ma d’altra parte questo nome si sono dati e chi siamo noi per opporci, tu poi neppure hai mai visto le booktoker, beato innocente).
C’è un momento in cui Vittorio Gassman, l’ultimo al mondo dal quale ti aspetteresti una lagna del genere, rimprovera il conduttore, nascondendosi dietro mandanti del settore cinematografico, «sono latore, mi hanno incaricato di dirle, senza polemica», che alla fine della puntata precedente ha raccomandato agli spettatori di seguire il programma che veniva dopo il suo, «è certo una botta anche questa per gli spettatori – sempre più scarsi, purtroppo – che escono la sera per andare a questo rito sociale che la televisione non potrà mai sostituire». Vittorio caro, meno male che sei morto prima di sapere dello streaming, dei cellulari, dell’ipnotismo di TikTok.
Quindi quarantanove anni fa (settantasette, a contare dalla sala spopolata visitata da Flaiano) c’era già la crisi del cinema, quindi è tutto sempre uguale, quindi noi qui ci agitiamo scoprendo l’acqua calda. Altra citazione: non di Flaiano, di un signore che si chiama Bill Carter, scrive di tv negli Stati Uniti da molti anni, è quello che scrisse quel libro capitale su Leno e Letterman che ogni tanto cito, “The Late Shift”.
«Nel più pubblicizzato di questi casi, il conduttore d’un talk-show nazionale è stato mollato da molti inserzionisti e criticato dal portavoce della Casa Bianca per aver fatto quella che molti hanno ritenuto un’affermazione non patriottica». È un articolo che riguarda la Abc, ma non Jimmy Kimmel. È un articolo del settembre 2001, quando Bill Maher, il cui programma s’intitolava “Politically Incorrect” e andava sulla Abc, disse (sei giorni dopo l’undici settembre, in spregio alla formula «tragedia più tempo» che ci aveva insegnato Alan Alda in “Crimini e misfatti”) che eravamo dei vigliacchi a sganciare missili stando al sicuro nei nostri aerei, mentre restare a bordo dell’aereo mentre si schiantava sulle Torri Gemelle certo non costituiva viltà.
Il programma fu chiuso alla fine di quella stagione, Maher sta benone e ha un programma ogni venerdì su Hbo (scrivo prima di sapere cos’abbia detto ieri sera su quest’ultimo pasticcio: di norma, è l’unico comico televisivo il cui monologo trovi quasi sempre interessante). Venticinque anni fa come oggi, la miglior difesa contro la cancel culture è il talento: ci sarà sempre qualcun altro che ti vuole, se sei capace. Però la domanda è: cosa metti in onda a fare un programma intitolato “Politically Incorrect” se poi ti turbi quando vengono dette cose non in tono col sentimento di maggioranza?
Il fatto è che, tra le molte cose che sono sempre uguali, non ci sono solo la crisi del cinema, il disastro del doppiaggio, gli inserzionisti che non vogliono mettere i loro biscotti dentro programmi che indispongano il grande pubblico: c’è anche che la libertà d’espressione o è estrema o non è, e non ho ancora incontrato qualcuno, a parte me stessa, che sia disposto a essere estremista.
Tutti fanno il tifo per qualcuno, tutti pensano che qualcun altro sia una disgrazia, tutti hanno una curva d’appartenenza, e se silenziano il mio lato della baracca è una grave violazione dei diritti umani ma se silenziano la curva avversaria tutto sommato meglio così, ché quelli lì dicono delle bestialità pericolose.
Che poi, a dimostrare che la miglior difesa contro la cancel culture è il talento, sono proprio i casi in cui a essere silenziati non sono stati i nostri beniamini. Vi pare che Donald Trump sia caduto nel dimenticatoio, dopo che Jack Dorsey gli chiuse d’imperio l’account su Twitter? Sì, lo so che quella del caso Jimmy Kimmel è l’interferenza del potere nell’intrattenimento, mentre lì voi che tifavate perché silenziassero l’uomo arancione stavate facendo del bene arginando la disinformazione e tutto il cucuzzaro: ma vedete? Il fatto stesso che la vostra obiezione sia questa dimostra che, tra settantasei anni, sarete ancora qui ad accapigliarvi sulla maggior stronzaggine della controparte e la libertà d’espressione che dev’essere solo vostra.
Sarete ancora qui a obiettare che non si può gridare «al fuoco!» in un teatro pieno, senza rendervi conto che l’esempio non vale più, non ci sono più teatri, siamo tutti nella migliore delle ipotesi in giro (nella peggiore sul divano) a guardare il telefono che ci rimanda visioni del mondo che somiglino alla nostra, e se qualcuno urla – «al fuoco!» o altro – probabilmente non lo sentiamo perché abbiamo le cuffie che isolano, così da poter sentire solo il rumore di fondo che viene da quello specchio che è il telefono, e se un topo risale dalle fogne e ci corre in mezzo ai piedi non ce ne accorgiamo, perché siamo impegnati a dare ragione e cuoricini a chi ci somiglia, e a scuotere la testa se qualcuno osa non somigliarci.
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